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Genoa Milan al Safari Bar

Ho
trovato sul muro dei Gir il resoconto africano della partita di
ieri.

Mi è piaciuto e lo piazzo sul mio blog. Così
evito menate tattiche e storiche per spiegare perché ieri
abbiamo vinto noi. Il calcio riattiva ricordi e anche se non fa
tornare indietro le persone regala momenti di malinconia struggente.

Il Genoa poi è maestro di recupero e mantenimento della memoria.

Per quel che vale, la goduria di ieri e l’abbraccio finale di squadra e città sono ancora per te, Claudio Spagna,
sempre e per sempre nei nostri cuori.
Di seguito Genoa Milan, al Safari Bar.

L’atmosfera
al Safari Bar di Kakoneni non è quella delle grandi occasioni,
ma poco ci manca. Quest’anno l’assembramento ha già
registrato i livelli massimi di colori, stupori, grida e afrori, di
denti bianchi in fila per quattro, occhi come quelli di rapaci
rivolti alla luna e ascelle come girasoli semichiusi. Prima con le
preoccupanti immagini degli scontri seguenti alla crisi politica del
Paese, poi con le vittorie nel mezzofondo alle olimpiadi di Pechino e
infine proprio la scorsa settimana, con la diretta di Kenya-Namibia
valevole per le qualificazioni ai mondiali del 2010 in Sudafrica. Per
la cronaca, 1-0 delle “Harambee Stars”, con gol di Jamal su
calcio di rigore (sacrosanto, per atterramento del fluidificante
Njoroge dopo una cavalcata da antilope in savana). In casi come
questi, anche i conservatori, i fondamentalisti anti-televisione
(“hakili ya shetani -è la scatola cranica del demonio”) si
uniscono alla folla e partecipano al viaggio emotivo. Sarà per
la presenza degli “wazungu”, dei bianchi che hanno regalato loro
l’hakili ya shetani e gli hanno attaccato anche una bella parabola,
perché a nonno Kazungu piace il calcio, ma soprattutto il
campionato inglese, tifa Portsmouth come il suo primo datore di
lavoro, alla fine degli anni Cinquanta; sarà perché c’è
un insolito drappo rosso e blu all’ingresso del Safari Bar, ma
l’esercizio è pieno.

Domenica, i ragazzini fanno festa, ma
non tutti possono entrare. I più ligi, diretti dal piccolo
Kitsao, sono seduti all’ombra del baobab della primari school a
leggere la bibbia e commentarla come se Gesù arrivasse da
Mariakani o Ngomeni, i musicofili si fanno incantare dalla tastiera
elettrica di Katana, che non sa suonare ma finge molto bene, grazie
al pulsante dei ritmi preimpostati. Il bandierone, i cui colori
ricordano l’etichetta della “Safari Vodka”, ha attirato anche
un paio di bevitori di mnazi, che non distinguono il calcio dal rugby
e la borsetta di una ragazza da un orinale. Kibonge riesce a
sbatterli fuori prima che avvenga l’irreparabile. Mama Lucy guarda
con amore la sua pochette e la stringe a se, come fosse un figlio
scampato all’uragano di Houston. I più tranquilli e
interessati, come Gunga, soprannominato Drogba, che a nove anni ti
snocciola la formazione del Chelsea riserve comprese, o Kea, che si
presenta con una sgargiante maglietta dell’Inter, numero 7 e la
scritta “Figo”, che in swahili vuol dire “rene”, sono in
prima fila accanto a nonno Kazungu, all’elettricista Makotsi, al
suo vicino di casa Onesmus e al venditore di telefonini Lawrence
Kamongo, che controlla le tacche sul suo Nokia. Ci sono tutte, va
tutto bene. Al bancone, con aria finto disinteressata, il barista
Kibonge serve Pilsner tiepida e lascia spento il frigorifero (“non
fa ancora abbastanza caldo”). Seduti sugli sgabelli, in posizione
ottimale con i gomiti piantati sulle salviette di spugna della
Guinness, gli “wazungu”, lo Svaporato con sua moglie e i suoi
amici: il “Genoa club Malindi”. Già, perché oggi a
Kakoneni, alle porte del parco nazionale dello Tsavo, cento
chilometri dalla semiciviltà di Malindi, si vede il campionato
italiano: Genoa-Milan. Kalume, ex cameriere all’Hemingways di
Watamu, licenziato perché “non resisteva alle arachidi e poi
gli veniva sete”, indossa la maglia di Ronaldinho, quando era
ancora al Barcellona, Kibebe lo scemo del villaggio si lamenta perché
“nel Milan non c’è più un africano in campo”, e
fa voto di tenere ai rossoblu. “Eccolo, c’è Seedorf, in
panchina”, gli fa Kibonge. “Tengo al Genoa lo stesso, c’è
un congolese!”, replica Kibebe, strizzando l’occhio allo
Svaporato, la cui maschera di pietra saponaria tradisce la tensione
che sperava di allentare assistendo al match insieme con gli africani
al bar. Sua moglie ha già indottrinato gli avventori un quarto
d’ora prima, per non essere disturbata dopo il fischio d’inizio.

Tutti ora sanno che il Genoa è la squadra più antica
d’Italia e che è stata fondata dagli inglesi ma poi è
diventata italiana, un po’ come lo stato del Kenya, insomma… “Un
tempo le cose antiche avevano grande valore – aveva sentenziato
nonno Kazungu – ora invece se hai l’automobile più
moderna, l’ultimo modello di telefonino, sembra che acquisti valore
anche tu, che magari hai molto meno sale in zucca di tuo padre”.
Alla parola “telefonino” Kamongo si era destato da un torpore
causato dalle parole incomprensibili di un certo Italo Cucci, su Rai
Italia. “Tranquillo, sono incomprensibili anche per noi” lo aveva
rassicurato un mzungu. “Bisogna distinguere tra antico e vecchio”
era la nenia del rappresentante. “Infatti” disse nonno Kazungu.
“Il Genoa è antico, il Milan è vecchio!” Risate
convinte dei kenioti, convulsioni nervose del Genoa Club Malindi. La
partita ha inizio. Sugli spalti c’è molta più gente
che al Nyayo Stadium di Nairobi quando giocano le Harambee, e anche
se non ci sono tamburi e ballerine di “ngala music”, fanno un bel
casino! E tutto per il Genoa. “Il Milan però ha vinto molto
di più, è fortissimo” precisa Kalume. “Genoa,
Genoa, Genoa!” gli urlano nell’orecchio Gunga e Mwachiro.

Quando
Ronaldinho si prepara per l’esecuzione di un calcio di punizione,
però, nel Safari Bar calà il silenzio, come nel preciso
istante in cui il sole s’inabissa dietro la spina dorsale della
Rift Valley e tutti gli animali pregano in privato per il suo ritorno
l’indomani. Fuori. Torna il sole. Ma il Genoa ha grinta, è
come uno gnu testardo che ha deciso di sfidare l’anziano leone
sulla corsa. Non è così presuntuoso da irriderlo, ma lo
attende, ne studia la strategia e valuta le sue stanche mosse, poi
scarta di lato, chiamandolo alla rincorsa. Ecco la differenza, pensa
nonno Kazungu: l’orgoglio e la fierezza dell’antico guerriero
contro il potere ormai logoro del vecchio padrone. Gli animali sono
undici. Ognuno ha la sua razza, la sua personalità, ma tutti
corrono per una causa comune. “Vinceremo!”. C’è una
sgusciante gazzella di nome Gasbarroni, lui sembra voler ferire con
la sua gioventù il vecchio leone. Gli passa di fianco e lo
salta, contandone le rughe. Quando poi il pallone giunge al Principe,
leopardo dai passi felpati, tornato da poco in Savana per combattere
con l’antica alleanza del Grifone, lui lo ammorbidisce come fosse
la carne di una zebra, masticata per i denti poco avvezzi al pasto
del suo cucciolo. Il cucciolo si chiama Sculli e, grazie al Principe
leopardo, trova dimestichezza con quel pasto succulento.

E’ gol!
Genoa-Milan 1-0! Urla, ruggiti, tappi di tusker malt che saltano,
ascelle che si aprono come girasoli all’alba e ginger ale caldi che
schiumano sulla formica dei tavoli. Makotsi, che si ricorda ancora la
finale Milan-Liverpool di Istanbul, predica calma. Il Milan può
uscire fuori alla distanza, è leone e serpente allo stesso
tempo. Ma la reazione del felino ferito è debole, il Grifone
lo tiene d’occhio e non spreca energie, anche se la gazzella dalla
lunga chioma sembra scatenata. Al fischio finale del primo tempo le
pacche sulle spalle si sprecano. Sembra già tutto archiviato,
tanto che Kibebe lo scemo fa per andarsene. “Guarda che non è
mica finita…” gli fa Kamongo. “Lo so, lo so…finisce 2-0…”
Lo Svaporato ascolta e fa un gesto scaramantico che il nonno scambia
per eccessiva presenza di zanzare. “Accendi il ventilatore, barman”
“Va bene, ma quando ricomincia la partita lo spengo, fa troppo
rumore”. Il secondo tempo si apre con un leone riposato e più
in palla. E’ convinto di essere ancora il re della savana e mostra
i denti, con l’ingresso dell’africano.

Ma il ranger del Grifone
inserisce in campo un altro strano animale un po’ gibbuto e ricurvo
su se stesso, sembra un facocero, ma scatta e si ritrae come un
dikdik. Si chiama Marco Rossi, dice la moglie dello Svaporato, e si
appiccica all’africano Seedorf come una iena su un bufalo malato.
Appena l’antica alleanza può sottrarsi alle grinfie del
vecchio leone, sa fare male. Lotta con le unghie, si apre a raggiera
e punge, leopardo e gazzella insieme sono devastanti: leggiadria e
potenza, estro e concretezza, fantasia e classe. Così si
resiste e si sfiora il colpo di grazia, si subisce solo un’azione
(“ma cosa c’entra un anatroccolo nella compagnia del leone?” si
chiede Gunga) e il finale è meraviglioso. Il leopardo si trova
a tu per tu con il capobranco, un leone di quarant’anni che ne ha
viste di tutti i colori, in tutto il mondo. Si guardano, per un
attimo. E per un secondo il leopardo ha un moto di commozione, ne
legge le azzurre pupille come a voler sorbire l’ultima perla di
saggezza. Ma è tardi, ora. Il sole sta per tramontare e colora
la rift valley di arancione. Il leopardo fa una finta. Il capobranco
abbocca. Il leone si arrende, sfinito. E’ giusto così. Forse
presto i leoni avranno un nuovo leader, forse bisognerà
attendere che tutti i vecchi se ne vadano.

“E’ il destino di chi
non conosce l’orgoglio di sentirsi antico – sospira nonno Kazungu
– diventa subito vecchio ed appassisce senza dignità.
Guardate me: sono antichissimo, ma ho sempre qualcosa da imparare e
ho i miei nipoti. Grazie a loro non morirò mai!”. Kalume non
lo ascolta, accartoccia la sua maglia di Ronaldinho e chiede a un
mzungu se è possibile averne una di Gasbarroni, il barista
Kibonge stringe mani come fosse l’arbitro e il suo sorriso sa che
sta per partire un giro offerto dallo Svaporato, Gunga e Kea ballano
in tondo gridando “Genoa Genoa”, Kibebe lo scemo esce di corsa
strepitando “l’avevo detto, l’avevo detto!” Lo Svaporato,
avvolto nella sua sciarpa (antica, eccome…ancora recita "Fossa
dei Grifoni") vede passare come sempre un film in filigrana
davanti al cielo d’Africa: promozioni, bagni in una fontana magica ma
così lontana adesso, lacrime di gioia e di rabbia, bestemmie e
peana al terzo piano della Nord, sorrisi bagnati di tristezza come
quello di Genoa-Cosenza e smorfie sofferte di liberazione come quelle
di Genoa-Napoli.

Un film senza titoli di coda e con un solo volto, in
mezzo alle millefacce di un popolo di cui in pochi oggi difendono gli
antichi valori: il volto di Claudio Spagna. Per te. Per noi. Il
Safari Bar si svuota con calma, come il Ferraris. Ci si abbraccia, si
beve e si respira un’aria di frizzante libertà, come se
davvero qualcuno avesse abbattuto un vetusto dittatore. Lawrence
Kamongo controlla la batteria del suo nuovissimo Nokia. Ha perso due
tacche, proprio come il Milan. “Sembra moderno – gli fa Makotsi –
ma è già vecchio…buttalo via!”

Posted in Pizi Wenxue.


One Response

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  1. Davide says

    Da brividi! Questo filo rossoblu che lega i Genoani in ogni parte del mondo ci fa sentire orgogliosi e mai soli.Complimenti all’autore.