Si diceva di demoni. Quello
che per noi occidentali è lo stile, la personalità
di un artista, la sua firma, per la cultura musulmana costituisce un
difetto.
All’interno di questa disputa culturale storica e non
ancora assopita, Pamuk organizza un noir gotico ottomano, una vera e
propria epica, riferita a tempi sospesi nella storia e più che
mai attuale: una vicenda che affoga nei tempi di predicatori
integralisti, sperimentatori, faccendieri e il mondo misterioso e
straordinario dei miniaturisti del Sultano. Il tutto in una Instanbul
nera, fredda, coperta di neve e misteriosa nelle sue viuzze percorse
da giannizzeri, invasati e amanti in segreto del caffè e di
altre amenità umane.
La
vera genialata di Pamuk è però nella struttura del
romanzo: un racconto corale, che avanza di voce in voce (straordinari
ed esilaranti i capitoli in cui a parlare sono i cani (mi ha ricordato il gatto de Il Maestro e Margherita), gli alberi e
Satana, un mix tra lirismo e satira davvero imperdibile e
tranquillamente rovesciabile sul piano più vicino al nostro,
ovvero all’interno dei canoni della religione cristiana), con viste
personali, uniche su eventi raccontati in modi diversi. Eccitante la
scelta di fare parlare anche l’assassino sotto le veci di personaggio
del libro e di assassino (“di me diranno che sono un assassino”, tutti i capitoli iniziano così, "il mio nome è nero" (non il mio socio, ma un protagonista del libro), "mi chiamo Esther", o "il mio nome è rosso", nel senso del colore, così amato e misterioso per i miniaturisti di Allah).
Una roba alla Saramago, tra voci e racconti popolari, storie e bugie,
passioni e sotterfugi, in un turbine di prospettive da capogiro, in cui la verità sfugge in continuazione, così come la paternità delle opere: in un capitolo uno dei maestri affascina con storie coraniche, per arrivare a parlare di stile, virando infine sul senso o meno della paternità delle opere artistiche (la firma, appunto) tirando una volata alla stupidità della proprietà intelluttuale, come già all’epoca sembrava affermarsi in occidente (e non è un caso, forse, che Al Jazeera rilasci i suoi video con la creative commons…).
E
sullo sfondo la diatriba storica particolarmente succosa: la
prospettiva, i ritratti occidentali giunti da Venezia al Sultano,
portano quest’ultimo a chiedere a un uomo fidato la scrittura e
pittura di un libro che magnifichi l’Impero Ottomano agli occhi degli
occidentali. Un libro moderno, in cui i disegni sappiano mantenere la
tradizione ottomana e mischiarsi con quella occidentale. Un evento
che scuote la comunità dei pittori ottomani: dal disegnare
quanto vede l’anima di Allah, si ritrovano all’interno di un progetto
in cui devono disegnare ciò che vedono. Un cambiamento, un ribaltamento artistico e sociale, che
comporta rischi, passioni e omicidi.
Di
solito sono decisamente possessivo riguardo i libri, se posso li
tengo per me, anche nei ricordi, al massimo se mi piace lo regalo in continuazione. La sensazione con Il mio nome è rosso è
però quella di un lbro moderno con il passo del classico più
classico. Mi ha letteralmente folgorato, per questo lo consiglio ai quattro lettori di questo blog.
E una dei 4 lettori ringrazia…
ma ho sentito parti di una lettura radiofonica di questo libro qualche mese fa!
si, gli spizzichi che ho sentito mi avevano catturato, e la nozione dell’artista che non deve lasciare tracce di se’ in cio’ che produce e’ fascinosa.
grazie del cosiglio, lo leggero’ di sicuro!