Di
seguito una ricostruzione di tutte le udienze, (le trascrizioni le leggere sul
sito di Supporto Legale) che riassume i punti cardine emersi nel
processo, clamorosamente ignorati dai pm nella loro requisitoria. In
attesa del 17 novembre, un piccolo e lieve ripasso di quanto si sta
discutendo e della posta in palio.
Il
processo ai 25 manifestanti è ormai in dirittura d’arrivo.
Oltre due secoli per i 25 imputati, la pena richiesta dai pm. Con
oltre 300 ore di video e 15 mila fotografie circa, il processo ha
sviscerato molto di quelle giornate. Quanto è emerso ha dato
la possibilità di precisare come la preparazione di quelle
giornate nel luglio 2001 abbia coinvolto i più alti vertici di
polizia e carabinieri. Un vertice, quello di Genova, che rimarrà
nei libri di storia e di cui molto è conosciuto, tranne gli
aspetti più spietatamente politici. Sull’operatività
(chi comandava cosa e chi) molti dubbi sono stati risolti, grazie
all’identificazione attraverso relazioni di servizio, segnali sui
caschi, divise. Manca solo l’ultimo tassello: chi volle che in quelle
giornate si creasse un clima di impunità per le forze
dell’ordine e di terrore per le strade, in modo che saltassero
all’aria accordi, diritti e libertà di manifestare. Le
centinaia di testi però, non sembrano essere stati registrati
dai pm, tanto che l’accusa ha specificato: «Non mi serve un
consulente tecnico e neanche un testimone per apprezzare quello che
vedo». Ovvero, un milione e passa di euro spesi per un processo
in cui alla fine i pm hanno ribadito le proprie convinzioni, già
chiare ancora prima di ascoltare tutte le voci in tribunale. Quella
che segue è una carrellata di testimoni del processo ai 25,
che si incrocia con i tragici fatti di piazza Alimonda, archiviati e
senza un processo. Nonostante i pm abbiano cercato di circoscrivere
gli eventi al comportamento dei soli manifestanti, le centinaia di
udienze hanno permesso invece di scoprire parecchi lati nascosti di
quelle giornate: in modo particolare la preparazione e
l’atteggiamento delle forze dell’ordine per le strade di Genova.
Il
Tenente e Sun Tzu
«Nei
giorni del G8 ero effettivo come tenente nel XII Battaglione Sicilia.
Per il G8 si costituì il Ccir, Compagnia di contenimento e
intervento risolutivo. Sembra un parolone ma non era altro che una
compagnia che usava i nuovi equipaggiamenti per l’ordine pubblico».
Il tenente Mirante è nei punti nevralgici del G8: via
Tolemaide, via Caffa, piazza Alimonda. Avvezzo a situazioni
drammatiche, ricorda che sembrava di essere «nelle retrovie
della prima guerra mondiale, poiché la guerra è come
l’ordine pubblico». Cita Sun Tzu e De Gaulle, ma poi, quando si
tratta di piazza Alimonda, la sua memoria e la sua arte oratoria si
spengono. Ha visto tanti morti, lui. Il corpo di Carlo Giuliani e la
possibilità che sia stato colpito da una pietra, già
morto a terra, o ucciso dalla retromarcia del Defender, non lo tocca:
«Ho visto tanti corpi colpiti da investimento: il corpo può
rimanere integro ed essere stato investito. Non si può
stabilire perché era morto, addirittura in alcuni processi
l’avvocato cerca di dimostrare che uno è morto per infarto
prima che per investimento».
Maestri
di guerra
Benché
Mirante minimizzi, la formazione di reparti speciali dei carabinieri
ad hoc per Genova è un chiaro segnale di come le forze
dell’ordine si siano preparate all’evento. Il curriculum dei capi di
queste formazioni è di tutto rispetto. A Genova comandava,
direttamente dalla zona Fiera, il generale Leso. Fondatore e capo in
Bosnia e Kosovo delle Msu, Multinational Specialized Unit, la polizia
internazionale finanziata dalla Nato, era anche a capo della seconda
brigata mobile dell’arma, con lo scopo di addestrare e coordinare i
reparti in missione di guerra. Tra i suoi uomini, parà
Tuscania, teste di cuoio dei Gis e Ros. Con Leso ci sono Cappello,
oggi maggiore, e Truglio: nel 1994 sono tutti insieme in Somalia e
vengono citati nel memoriale Aloi fra «gli autori o persone
informate delle violenze perpetrate contro la popolazione somala».
L’inchiesta fu archiviata. Cappello, dopo Genova, viene mandato a
comandare l’unità militare a Nassiriya (si salvò dalla
strage perché in bagno) e ad addestrare la nuova polizia
irachena (pare grazie ai video del G8). A Genova c’erano i capi delle
missioni italiane all’estero, ma tutto questo per i pm non ha
contato. Ha contato invece l’assalto mediatico del funzionario di
polizia che accompagnava i militari italiani, Adriano Lauro.
Il
dirigente e i sassi
Adriano Lauro era il responsabile dell’ordine pubblico in piazza
Alimonda, oggi dirige il commissariato romano dell’Esquilino. E’ lui
a conquistarsi la scena in piazza Alimonda quando, rincorrendo un
manifestante, gli urla «bastardo, l’hai ucciso tu con il tuo
sasso». E i sassi, nelle sue deposizioni in aula, appaiono e
scompaiono al fianco del corpo di Carlo Giuliani, e tra le sue mani.
Il dirigente infatti è beccato a lanciare sassi ai
manifestanti e sarà richiamato in aula a riconoscere quello
che appare insanguinato accanto al corpo di Carlo (con la ferita a
stella sulla fronte), salvo poi scomparire di nuovo. E ricorda gli
attimi immediatamente successivi: «Si avvicina un poliziotto e
mi dice che c’è un giornalista che ha raccolto un bossolo. Io
dico "come un bossolo? Fammelo vedere". L’ho preso e ho
chiesto dove l’ha trovato. "Vicino al cadavere", mi
risponde. Ho avuto un’altra mazzata psicologica e ho pensato che non
fosse stato un sasso. Avevo ancora dei dubbi. Penso di aver
richiamato Massucci e di avergli detto "mi sa che non era un
sasso, potrebbe essere stato un colpo, gli ho detto"».
Gaggiano
e gli imbuti
La
madre di tutti i disastri genovesi, prima dell’omicidio di Carlo
Giuliani, è però la carica al corteo autorizzato di via
Tolemaide. I carabinieri, per i pm, non sono responsabili di niente,
d’altronde «è stato scelto dai manifestanti di scendere
giù, ovvero non sono state le forze dell’ordine a far passare
il corteo in via Tolemaide per poterlo aggredire», ha
specificato Canciani in udienza. Angelo Gaggiano si presenta sul
banco dei testimoni a Genova, dopo aver rilasciato dichiarazioni alla
stampa nelle quali si era preso ogni responsabilità per la
carica. Immagini e audio dimostrano il contrario. La deposizione di
Gaggiano, goffa e macchiettistica, colma di dimenticanze e
confusione, sfuma sulle sue comunicazioni radio, preannunciate dal
grido che giunge dal centro di controllo della polizia: «No!
Porco Giuda, hanno caricato le tute bianche!». Gaggiano spende
minuti concitati a chiedere ai carabinieri di rientrare, di ritirarsi
per lasciare il corteo. Parla di «imbuti», «qui non
ci muoviamo più», continua a ripeterlo via radio, ma in
udienza omette molto. L’attendibilità della testimonianza di
Gaggiano, oggi in pensione, viene infine minata da un sordido
retroscena: una condanna per ricettazione di mobili rubati, insieme a
un magistrato.
Le
spranghe di ordinanza
Il
capitano Antonio Bruno è a capo dei carabinieri che,
accompagnati dal funzionario di polizia Mondelli, caricano il corteo
delle tute bianche. La sua deposizione, coadiuvata da immagini e
fotografie, dimostra due cose. In primo luogo che la carica fu
arbitraria e ingiustificata: i carabinieri partono all’attacco del
corteo senza aver subito quel lancio di oggetti, come ha sostenuto in
aula il funzionario ps Mondelli; si girano prima a sinistra caricando
fotografi e giornalisti (si sente uno di loro urlare «aò
so della Rai»), poi a destra, imboccando via Tolemaide e
affrontando con grande veemenza gli scudi di plexiglass delle tute
bianche. In secondo luogo le immagini hanno permesso di chiarire che,
durante la carica, i carabinieri anziché usare i tonfa di
ordinanza fecero uso di mazze di ferro. Nel novembre 2004 le udienze
su via Tolemaide e la caccia all’uomo delle forze dell’ordine non
sembravano più in dubbio per nessuno, così come le
reticenze di molti testimoni. Tranne per i pm.
Gli
esperti di ordine pubblico
A
sorreggere l’ipotesi difensiva – forze dell’ordine in bambola,
impreparate e in mano ai picchiatori – è giunta a Genova anche
la professoressa Donatella Della Porta, esperta di ordine pubblico e
movimenti. Una presenza sgradita ai pm, tanto che Canciani ha
minimizzato: «La consulenza tecnica della difesa era
un’attività che poteva fare chiunque». Della Porta
inquadra il problema: i reparti dovrebbero caricare solo quando sono
messi a repentaglio «gli stessi manifestanti». Invece a
Genova l’intervento coercitivo ha avuto la meglio, con l’utilizzo di
«strumenti che gli stessi funzionari di polizia avevano
considerato nelle nostre interviste come pericolosi per una
escalation: i lacrimogeni e l’uso dei blindati come strumenti di
carica, una cosa che si vedeva negli anni ’60 e che aveva fatto morti
nei ’70».
Le
giornate di Genova non sono state solo caccia all’uomo, cariche
sconsiderate, militarizzazione della città. Sono state anche
il teatro prescelto per scontri di potere all’interno delle stesse
forze dell’ordine. In materia di ordine pubblico i carabinieri non
possono fare alcunché senza l’autorizzazione del funzionario
di polizia che ne accompagna i contingenti. A Genova però, su
chi avesse «il manico» rimane ancora oggi molta
confusione. Fini, allora ministro degli Esteri, era nella caserma di
San Giuliano, il centro di controllo dei carabinieri – nonché
con Bolzaneto carcere temporaneo per gli arrestati – a testimonianza
del rapporto privilegiato dell’Arma con la destra italiana.
Dall’altro lato una centrale operativa della polizia che più
volte, ascoltando le registrazioni delle telefonate, appare in panne
nella comunicazione tra reparti, tanto con i carabinieri, quanto
nella gestione delle emergenze segnalate dai cittadini.
Una
polizia che giunge al G8 con De Gennaro saldamente in carica, ma
desideroso di dimostrare la propria lealtà anche ai nuovi
padroni del centrodestra (era stato nominato nel maggio 2000 dal
centrosinistra). Il sabato, soprattutto con l’irruzione alla Diaz, la
polizia risponderà alle critiche di chi li accusava di avere
fatto pochi arresti e di un comportamento in tono minore per le
strade. Dopo l’omicidio di Carlo, i carabinieri durante la disastrosa
giornata di sabato vengono tenuti in disparte. Il venerdì però
lo scontro avviene, tra incomprensioni, decisioni autonome dei
carabinieri, insulti via radio: il processo e i testimoni delle forze
dell’ordine, tra mille tentativi di giustificare il tutto con
difficoltà tecniche – pare non funzionassero bene le radio e
gli auricolari in dotazione – hanno messo in evidenza contrasti tra
polizia e carabinieri, sfociati in una generale disorganizzazione
organizzata di cui hanno fatto le spese migliaia di manifestanti. Un
altro dei tanti conflitti – come quello tra reparti mobili e squadre
mobili in seno alla polizia emerso la notte e anche nel processo Diaz
– consumatisi in quelle giornate del 2001.
Un Di Furia di
carabiniere
Tra i carabinieri impegnati nelle vie genovesi c’è
anche chi è rimasto fuori dai giochi, dando luogo ad una
esilarante, se non fosse tragico il contesto, gag. E’ il capitano
maggiore Di Furia, ore e ore di comunicazione con la centrale di
servizio a litigare con funzionari della polizia, per andare a
caricare i manifestanti e infine per chiedere cibo: «Io ho già
tutto il personale sui mezzi, i mezzi accesi, mi basta solo un via
libera da parte vostra quando volete. 112: d’accordo. Dobbiamo
ricattare la questura per farci liberare. 112: lo stiamo facendo.
Perché io lo ammazzo questo funzionario, odio più lui
dei no global, se dessero fuoco alla questura farei festa».
Dopo
innumerevoli telefonate, dalla Centrale non arrivano novità,
anzi dopo diversi tentativi Di Furia sembra non trovare mai un
ascoltatore intenzionato ad aiutarlo.
«Sono il maggiore Di
Furia, buongiorno con chi parlo? Di Furia che cazzo vuoi sono
Biscotti. Bisco, senti qui abbiamo un cretino di funzionario che non
ci sta facendo sganciare nemmeno un mezzo per poterci andare a
prendere i panini che ci hanno tra l’altro preparato, sono 3
ore».
Con il passare dei minuti sale la tensione. Nel resto
della città i carabinieri e la polizia stanno caricando, via
radio passano le notizie, l’atmosfera si surriscalda anche per il
reparto bloccato: «Di Furia, quanti siete? Siamo 72 incazzati
come bombe. Ok va bene signor maggiore. Mandateci a lavorare per Dio.
Va bene salve».
Di Furia sente via radio che i carabinieri
sono in difficoltà. Cerca ancora il contatto, vuole aiutare i
suoi colleghi: «Il bello che ci avevano detto che eravamo qui
per rinforzo per emergenze, quali emergenze se questa non è
un’emergenza, è da bruciarli tutti, siamo qui a non fare un
cazzo».
Infine l’amaro epilogo: «Tranquillo,
tranquillo, lo ammazzerei di legnate, sarei contento se gli dessero
fuoco a tutta la questura, maledetti bastardi, scusa 112: no, fai
bene a sfogarti, ma purtroppo la direzione ce l’hanno loro e c’è
poco da fare, va bene. X: va bene, ciao».
«Massacrateli»
Nella
trentaduesima udienza del processo in aula a Genova viene esaminato
Raffaele Mascia, dirigente di un contingente di 100 carabinieri che
venerdì vengono inviati sulla massicciata della ferrovia
Brignole a protezione dei reparti impegnati nella carica di via
Tolemaide. Poi seguiranno i contingenti fino in corso Gastaldi e
infine chiuderanno i varchi in piazza Martinez in una mossa a
tenaglia, sottolineata da molti testimoni. Giulietto Chiesa, chiamato
a Genova a testimoniare, dirà che mai in vita sua aveva
assistito a cariche senza lasciare vie d’uscita ai manifestanti. In
aula vengono fatte ascoltare a Mascia alcune conversazioni radio,
come questa: «Cot (Centro operativo telecomunicazioni, ndr):
Mascia, devi scendere per corso Gastaldi, Archimede, via Giusti e vai
in piazza Martinez, hai capito? Mascia: sì ho capito, con
tutti quelli che ho qui con me? Cot: confermo con tutti però
devi fare una cosa veloce e devi massacrare. Mascia: confermi? Cot:
confermiamo piazza Martinez».
Carabinieri in autonomia
La catena di comando ha costituito per buona parte del
processo l’argomento clou. Il tentativo, specie da parte delle
difese, è stato quello di comprendere l’organizzazione delle
forze dell’ordine, per evidenziare gli errori e una situazione di
confusione creata dagli stessi apparati di sicurezza, che ha portato
i manifestanti ad una difesa ad oltranza dagli attacchi. Il primo
marzo del 2005 in aula a Genova si presenta il maggiore Frassinetto,
responsabile della sala operativa dei carabinieri, presso la caserma
di San Giuliano. E’ lui a chiarire, si fa per dire, l’ambiguità
gerarchica creata in quelle giornate: la questura comunicava le
informazioni all’ufficiale in sala crisi, poi via telefono, alla
centrale operativa dei carabinieri e infine a Frassinetto. Era
quest’ultimo a comunicare gli spostamenti ai Ccir. Frassinetto è
chiaro sulle autonomie operative riservate ai carabinieri: «Essere
a disposizione della questura non significa prendere ordini
direttamente dal funzionario di piazza» e ancora, «la
questura non può muovere per proprio disegno gli uomini dei
carabinieri».
«Sono stati loro, anzi noi»
Ai
testimoni delle forze dell’ordine giunti in aula è stato più
volte chiesto il riconoscimento di coloro che menavano e fendevano
mazzate contro i manifestanti. A Guido Ruggeri, il comandante dell’ex
Battaglione Tuscania, assorto nel 1996 – a Livorno – a Reggimento (e
transitato nel 2002 dalle dipendenze della Brigata Folgore alla II
Brigata Mobile dei Carabinieri) vengono mostrate scene di pestaggi.
Il tentativo è scaricare sui colleghi: «Sono poliziotti
– dice in aula – non personale del Tuscania. Eravamo riconoscibili
per il cerotto arancione dietro al casco e per lo stemma verde del
Tuscania sul petto». Infine, di fronte all’ennesimo video, non
può che ammettere: «Riconosco un militare del Tuscania».
Vomito e attrezzature
Paolo Faedda, tenente dei
carabinieri, responsabile del contingente del III Battaglione
Lombardia, quelli di via Tolemaide, alcuni dei quali protagonisti nei
pestaggi del San Paolo a Milano dopo la morte di Davide «Dax»
Cesare, è il carabiniere che si vede vomitare durante una
delle tante cariche. Faedda in aula non si riconosce in una immagine
in cui compare di profilo, con un segno evidente sul retro del casco.
Nega di avere avuto segni di riconoscimento, ma poco dopo è
chino a vomitare con in mano il casco mostrato poco prima. Dice anche
di non avere effettuato arresti in via Tolemaide. Ancora una volta un
video lo inchioda: è lui che senza casco e con le manette in
mano sta arrestando un manifestante. Finge di non sapere che il III
Battaglione Lombardia ha fatto uso di manganelli irregolari,
ammettendo però che possa essere accaduto «perché
il tonfa non è sicuro e si può perdere»,
nonostante altri suoi colleghi avessero sottolineato, tra le
mirabilie dei tonfa, proprio la sua forma, grazie alla quale era
molto difficile perderlo. Nel finale dell’udienza un’altra sorpresa:
si scopre infatti che «i carabinieri possono munirsi di
materiale comprato a proprie spese». In aula si crea
sbigottimento, ma il teste tenta il salvataggio in corner
specificando che alludeva a «baschi, fondine, materiale
deteriorabile». Le mazze di ferro di Genova e le mazze da
baseball del San Paolo sono lì a testimoniare il contrario.
Il
Presidente e Truglio
Nel febbraio 2007 arriva a Genova uno dei
big, ovvero il tenente colonnello Giovanni Truglio, protagonista dei
fatti di piazza Alimonda. Nella sua deposizione interviene
pesantemente la Corte, che chiede chiarimenti e un giudizio del
militare sui fatti. «Le chiedo proprio come fatto storico, cioè
da parte sua non c’è mai stato il dubbio di aver commesso, o
lei personalmente o altri colleghi suoi, o non colleghi suoi, tipo
appunto la Polizia di Stato, degli errori nella gestione di quei
momenti?» Alla domanda del presidente Devoto segue una risposta
confusa. Sull’ennesima domanda, «l’Arma non ha fatto una sua
ricostruzione dei fatti?», Truglio ha la risposta più
decisa di tutta la sua deposizione. Un «no» forte e
chiaro che dimostra e nasconde tante responsabilità non ancora
appurate di quelle giornate.
(da
Il Manifesto)
Ei t.
Ne sono certo.
Il musicista si diverte e si estenua…
p.s. belle foto.
un bacio
b.
ei Simo, ammesso che la milonga fosse una canzone, niente, io l’ho guidata ad un ritmo più lento, e così, rivelava di sè, molto, molto più di quanto apparisse..
una verde frontiera, tra il suonare e l’amare, verde spettacolo in corsa da inseguire, fino ai Laghi Bianchi del silenzio, finché..
ei senti, mi passerà..
ciao ajorn,
mò ti rispondo…cmq sono qui 🙂
baci
b.
ueeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeee 🙂
te lo dico, non ho letto il tuo post,
ma son contento che ancora posti, pensavo fossi ‘sparito’ e iniziavo a preoccuparmi, stavo per chiedere info a chi potesse sapere, non hai risposto a una mia mail ma non e’ un problema in piu’ nessun post da un sacco di tempo oh! mi son preoccupato
va beh pare tutto bene
ciao 🙂