Ebbro
e denso di birra mi sono affacciato al mitico Croke Park con un
doppio timore: entrare in un posto leggendario (nel 1920 gli inglesi
spararono durante un match, uccidendo 13 persone), assiepato di circa
83 mila persone e andare a vedere per la prima volta dal vivo una
partita di rugby.
Per
un appassionato di calcio al rugby manca l’odio campanilista, le polemiche sterili, lo sfogo del tifoso contro avversari, arbitri, tutti, ma
l’attesa si tinge di curiosità. Del rugby mi piacciono alcune
caratteristiche, che attirano nella loro semplice brutalità.
Innanzitutto la palla si passa indietro per andare avanti: mi sembra interessante come concetto; in secondo
luogo non può esistere il giocatore fighetta, quello
che dice “oggi non ne ho voglia, mi nascondo”. Se ti nascondi, ti
asfaltano e basta. In terzo luogo mi piace il fatto che, pur elevato dalla retorica
giornalistica sportiva al rango di "gioco più corretto e signorile della
terra", in realtà è un coacervo di infidi furbetti,
pronti a menarsi sfruttando tutte le lacune della visuale
dell’arbitro, delle regole, dell’umana astuzia. La differenza con il calcio è che, dopo
essersele date, semplicemente, si ritorna a correre anziché
fare scene da squallida fiction all’italiana.
Ci
sediamo circondati da irlandesi e da alcuni italiani con strambi
capelloni tricolori. Quando parte l’inno in gaelico sembra che lo
stadio debba venire giù. Il rugby è l’unico sport che
unisce le due Irlande, gli inni sono due, l’emozione si fa sentire.
Poi lì sul campo iniziano a darsele e il pack italiano nel
primo tempo soffre la già ampiamente supposta superiorità
irlandese. Nell’intervallo ci si immette nelle code chilometriche per
accappararsi da mangiare (e da bere). Entriamo a secondo tempo già
ampiamente iniziato. Si sentono i boati, ma la zona antistante le
gradinate è ancora piena. Della partita non ce ne frega un
cazzo. Se magna, se beve, se chiacchiera. Si cerca di capirli, sti irlandesi, specie quando parlano sorseggiando birra e ordinandone un’altra, quando la prima è circa a metà. E’ finita, dicono.
Il
pack italiano nel secondo tempo è trasformato, in mischia si
va giù che è un piacere, il risultato si accorcia e gli
irlandesi cominciano a temere il peggio. Alla fine vincono, ma sono
delusi. Quando il match è terminato ci si stringe la mano come
i giocatori in campo e tutti al terzo tempo. Io ho ancora negli occhi
la manata di Bergamasco a un avversario, simbolo di forza fisica e
determinazione messa in campo dagli azzurri nella seconda parte.
Con
i due scemi, più La Maestra, unica savia, nonché
fotografa del gruppo, si va al pub affianco al cimitero, a una decina
di minuti dallo stadio. Cavanagh Pub, aka DaveDiggers, dal 1803 di proprietà
della stessa famiglia.
Odore di muffa, cantinale, rumore, guinness a
fiumi. Stanchezza, freddo della madonna, disquisizioni tecniche per
capire se si sono capite veramente le regole del rugby. Tentativi di
apprezzarne aspetti tattici e tecnici fino a quel momento
sconosciuti.
Si gode per il Galles che sconfigge i Perfidi Albioni e
comincia il tour dei pub. L’indomani ci aspetta Belfast: Falls Road,
Bobby Sand, George Best.
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