E’
passata ormai una settimana dai fatti tibetani. Si può
raccontare la vicenda sottolineando alcuni punti particolarmente
interessanti. Non per questioni di parte, ma, credo che alla fine tra
tutti i quotidiani di informazione italiana, quello più laico
sia stato Il Manifesto. Prudente il Corriere, un po’ sballato
Repubblica, terribili i nostri politici.
Appoggiare
senza porsi domande la causa del Dalai Lama è scorretto, oltre
che troppo facile. La posizione migliore, al solito, è quella
di portare alla luce quanto dietro ad ogni fatto pulsa e scroscia. Il
Dalai Lama è un’autorità religiosa. La Cina ha invaso
militarmente il Tibet, dove regnava una teocrazia, sostituita da una
forma dittatoriale differente, portata avanti a suon di soldi e opere
avveniristiche. I cinesi ragionano così: utilitaristi a loro
modo. Come a dire: vi abbiamo permesso di mangiare due volte al
giorno, che cosa volete adesso?
Così
quando sento Giordano o altri sinistri appoggiare indiscriminatamente
la causa tibetana, mi si pongono interrogativi sulla corretta
interpretazione della politica estera da parte dei nostri politici.
Né con il Dalai, né con la Cina, sarebbe la posizione
un po’ internazionalista – oddio l’ho detto – che ancora dovrebbe
animare un concetto di popolo e autodeterminazione, lontana dai
canoni consueti occidentali (che sfociano in razzismo, nazionalismo
ed idiozie politiche).
Tanto
più ridicolo l’appoggio al Tibet, senza se e senza ma e senza
pensarci su, quando tutto il mondo si caga in mano al pensiero di
fare uno sgarro ai cinesi. Loro, zitti zitti, hanno oscurato i fatti,
ammesso parzialmente qualcosa e propagandato, alla stregua di una
potenza occidentale (pensiamo all’Iraq, nel mondo, pensiamo a Genova,
in Italia) la propria verità. Il Dalai Lama ha fatto la stessa
cosa, lavorando per un anno intero per questo solo e concreto
momento.
Cosa
succederà? Niente. Perché il Tibet comincia a
retrocedere nelle notizie calde dei quotidiani, va scemandosi
l’attenzione, come se i fatti succedessero solo perché ne
parlano i giornali, si ricomincerà a tarallucci e vino e
proprio nel momento in cui l’attenzione dovrà essere alta
(repressione giudiziaria cinese e indagini interne – che porteranno
ad epurazioni, c’è da starne certi) – nessuno ne parlerà
più. Come per gli uiguri o per altri focolai pericolosi per i
cinesi.
Non
c’è niente da fare: siamo occidentalisti in ogni nostra
declinazione del pensiero. Pensiamo di capire ed etichettare un mondo
così diverso, ma così ricco di millenaria storia
filosofica, sociale e politica, con i nostri canoni di valutazione.
La Cina, forse, non si può spiegare, catalogare, assumere. Si
può solo raccontare.
Poiché
Il Manifesto poi blinda gli archivi, copio un articolo interessante,
storico e politico, qui di sotto.
Il
ginepraio tibetano radice antica della rivolta
Dal
VII secolo a oggi i tibetani hanno percepito la Cina alternativamente
come antagonista o protettrice, ma la convivenza è sempre
stata difficile, talvolta tragica, per gli errori delle classi
dirigenti
Erberto
Lo Bue
La
rivolta tibetana in corso è un po’ diversa da quella del 1989
e coinvolge ampi strati della popolazione laica. Non è
interpretabile come un evento orchestrato dal governo del Dalai Lama
e impone una riflessione storica. Dal VII sec. d.C. a oggi i tibetani
hanno percepito la Cina alternativamente come paese antagonista o
protettore. In epoca monarchica i tibetani si scontrarono con i
cinesi per il controllo della Via della Seta e i trattati di pace fra
i due paesi furono suggellati da matrimoni di sovrani tibetani con
principesse cinesi, due delle quali svolsero un ruolo importante
nella prima diffusione del buddhismo in Tibet. L’interesse tibetano
per altri aspetti della cultura cinese – astrologia, geomanzia,
medicina, abbigliamento e anche cucina, per citarne alcuni – risale a
quel periodo. A partire dall’VIII sec., tuttavia, il principale punto
di riferimento culturale dei tibetani divenne l’India, dalla quale
avevano derivato la scrittura e in cui riconobbero l’origine della
religione da essi adottata, e da cui ereditarono anche parte delle
loro conoscenze mediche e astrologiche attraverso la traduzione di
migliaia di testi buddhisti dal sanscrito in tibetano.
L’obelisco
di Lhasa
Il riconoscimento reciproco di Tibet e Cina fu suggellato
nell’821/822 dal trattato di pace inciso su un obelisco collocato di
fronte al tempio del Giokhàn, a Lhasa, che recita fra l’altro:
«…Sia il Tibet sia la Cina manterranno il territorio e le
frontiere di cui sono attualmente in possesso. Poiché l’intera
regione a oriente è il paese della grande Cina e l’intera
regione a occidente è sicuramente il paese del grande Tibet,
da nessun lato di questa frontiera ci saranno guerre, invasioni
ostili, conquiste territoriali…». A partire dall’XI sec.
cominciarono a costituirsi diversi ordini religiosi tibetani, spesso
rivali fra loro, e nuovi regni, nessuno dei quali ebbe però la
capacità di riunificare il paese. Monasteri e sovrani tibetani
adottarono la strategia di farsi appoggiare da tribù mongole
rivali fra loro o dagli imperatori della Cina contro i loro rivali
tibetani, e nel XIII sec. si sottomisero alla dinastia mongola che
avrebbe governato la Cina con il nome di Yuan. Nel XVII sec. l’ordine
religioso capeggiato dai Dalai Lama riuscì a imporre il suo
dominio su tutto il Tibet grazie all’appoggio mongolo e
all’istituzione di un sistema ierocratico. Dopo il crollo della
dinastia mancese – che nel 1720 aveva ridotto il Tibet a protettorato
– l’aristocrazia tibetana cominciò a dimostrare interesse per
l’Occidente, ma il clero si oppose a ogni apertura e nel 1923 fece
chiudere la scuola inglese di Gyantsé, accusata di insegnare
dottrine – le scienze – non conformi alla tradizione. Alla fine del
1949 l’Esercito popolare di liberazione iniziò l’occupazione
del paese; le operazioni militari si conclusero nel marzo del 1959
con la repressione della rivolta di Lhasa, seguita dalla fuga in
India e Nepal di un centinaio di migliaio di persone appartenenti a
tutte le classi sociali. A quella «liberazione» seguì
la Grande rivoluzione culturale proletaria, con la distruzione della
quasi totalità dei monasteri e castelli, il divieto di
professare la religione e la collettivizzazione forzata. Gli atti
vandalici perpetrati dalle Guardie rosse nel Giokhàn di Lhasa
il 26 agosto 1966 segnano convenzionalmente l’inizio della
Rivoluzione culturale in Tibet, ma le testimonianze fornite dai
monaci indicano che le distruzioni erano iniziate in precedenza.
L’espressione occidentale «genocidio culturale» potrebbe
applicarsi bene a quel periodo, non a quello attuale. La resistenza
tibetana all’occupazione cinese iniziò nel Tibet orientale, ma
nel 1958 vari raggruppamenti di guerriglieri si riunirono sotto un
solo comando con sede nel Tibet meridionale. La Cia iniziò ad
appoggiare la guerriglia tibetana, che cessò nel 1974 con lo
smantellamento delle ultime basi nel Mustang, in territorio nepalese.
Dopo la caduta della Banda dei Quattro la resistenza fu condotta
pacificamente soprattutto da religiosi appartenenti all’ordine del
Dalai Lama. La liberalizzazione del Tibet iniziò nel maggio
del 1980, dopo la visita del segretario del Partito comunista cinese
nella Regione Autonoma del Tibet e la successiva rimozione del
segretario del Partito comunista tibetano. Da quel momento i tibetani
poterono nuovamente professare la loro religione e anche studiare la
loro lingua. Dall’inizio degli anni Ottanta sono stati pubblicati
numerosi testi tradizionali d’argomento religioso, storico, medico,
astrologico e grammaticale, ai quali si aggiungono dizionari, riviste
e anche un quotidiano, tutti in lingua tibetana. La scrittura
tibetana appare sulle banconote della Repubblica popolare, mentre le
scritte e i cartelli in Tibet sono generalmente bilingui. Queste
concessioni non hanno però significato piena libertà di
parola, di stampa e di associazione. La maggior parte della gente
evita di esprimere le proprie idee politiche e tace completamente su
certi temi. Le contestazioni sui luoghi di lavoro e le rivolte nei
monasteri vengono pacificate mediante l’invio di funzionari di
partito, che costringono i rivoltosi al dialogo e alla discussione.
In questo genere di incontri alcuni tibetani hanno trovato il
coraggio di accusare la Cina di «imperialismo»,
esponendosi tuttavia a loro volta all’accusa di «separatismo»,
con cui viene tacciata qualunque opposizione all’occupazione cinese:
per la maggior parte dei cinesi, del tutto indipendentemente dal loro
credo politico, il Tibet è inseparabile dalla Cina, anche se
viene percepito come un luogo esotico e spirituale, proprio come
nell’immaginario occidentale, che sul Paese delle Nevi continua a
proiettare le proprie fantasie, senza aiutare i tibetani a maturare
culturalmente e politicamente. Questa percezione è legata al
fatto che due dinastie, gli Yuan e i Qing, sottomisero effettivamente
il Tibet; ma ambedue erano straniere e conquistarono la stessa Cina.
Tale unità non viene comunque percepita dai tibetani, che
occupano un territorio con caratteristiche etno-linguistiche,
culturali, religiose, economiche e sociali del tutto particolari.
Nuova
ricchezza, vecchi rancori
I tibetani contribuiscono oggi alla creazione di una nuova
ricchezza e beneficiano su larga scala di innovazioni inimmaginabili
prima del 1959: scuole, ospedali (anche di medicina tradizionale),
strade carrozzabili, veicoli e macchinari a motore, energia
elettrica, telegrafo, telefono, radio, televisione e perfino
gabinetti pubblici si trovano ormai in tutte le città. Queste
ultime sono state tuttavia fortemente sinizzate in seguito all’arrivo
di diecine di migliaia di immigrati cinesi, percepiti dai tibetani
come stranieri anche perché incapaci di parlare tibetano:
eccetto coloro che beneficiano dell’attuale assetto politico, i
tibetani non nutrono simpatia per i cinesi. Le autorità cinesi
hanno tentato di coinvolgere i tibetani nell’amministrazione e nella
trasformazione dell’economia del paese, investendo in Tibet ingenti
capitali. Tuttavia i loro sforzi per conquistarsi il cuore dei
tibetani non hanno conseguito il risultato politico sperato. La
popolazione continua a considerare i cinesi come occupanti stranieri,
e a loro volta i cinesi non capiscono e giudicano ingrato
l’atteggiamento dei tibetani. La Cina riesce così a mantenere
il controllo del Tibet soltanto grazie all’apparato del partito e
alla massiccia presenza del suo esercito. L’invasione militare cinese
– bollata da un marxista quale Bordiga come manifestazione di
«conformismo nazionalcomunista» -, la distruzione della
maggior parte del patrimonio culturale tibetano ad opera delle
Guardie rosse e la colonizzazione cinese hanno rappresentato tre
gravi errori politici difficilmente rimediabili, che hanno provocato
la nascita di un moderno nazionalismo tibetano e non sono riusciti a
cancellare la fede buddhista con cui tibetani si identificano da un
millennio. Agli errori della classe dirigente cinese si aggiungono
quelli della classe dominante tibetana, che non si mise in
discussione, ma fino alla metà del secolo scorso gestì
il paese come avrebbe potuto fare nel XIII sec. e non preparò
il paese ai grandi cambiamenti. Così i tibetani si trovarono
del tutto impreparati di fronte all’occupazione cinese. Sino a oggi
il governo di Pechino è riuscito a fare amministrare il Tibet
da tibetani iscritti al partito e obbedienti a pochi alti funzionari
cinesi, ma non rappresentativi della maggioranza della popolazione
tibetana. Dal 1959 esistono così diverse realtà
tibetane, sia in Tibet sia nella frammentata diaspora tibetana, che
fa capo a un governo democraticamente eletto, in India. I tibetani
della diaspora si sono occidentalizzati, anche se la loro cultura è
controllata dal clero, che prospera grazie anche a un forte sostegno
occidentale. L’incapacità della diaspora tibetana di
rinnovarsi culturalmente in senso davvero laico è dimostrata
dall’assenza di un’università che faccia da contrappeso
all’Università del Tibet, la quale da anni collabora con
università europee e statunitensi anche attraverso lo scambio
di studenti. La mancata formazione di una classe politica tibetana
veramente rappresentativa, buddhista ma laica, ha ridotto le
possibilità di dialogo con le autorità di Pechino,
prive di interlocutori seri e carismatici, fatta eccezione per il
Dalai Lama, che fortunatamente è un pacifista sincero: non
chiede l’indipendenza del Tibet, ma ne auspica una vera autonomia,
condanna qualunque violenza, anche quelle di parte tibetana, e non
vuole che gli attuali scontri diventino un pretesto per mettere in
crisi i giochi olimpici, che anche nelle intenzioni del loro ideatore
non debbono diventare un’arena politica. Al di là di questo,
tibetani e cinesi sembrano condannati a una difficile convivenza dai
gravi errori politici commessi dalle loro rispettive classi
dirigenti.
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beirut,
io sono d’accordo con ciò che scrivi
credo si tratti, semplicemente, di relativismo culturale.. che si dovrebbe applicare per tutte le culture, non solo quella tibetana e cinese..
il Tibet aveva le sue gerarchie, la Cina gli ha portato soldi e altre gerarchie..pero’ magari al Tibet che cazzo gliene frega dei soldi dei cinesi, meglio le loro gerarchie?
però, anche il relativismo, che io appoggio con cautela, ha i suoi lati deboli..come giustificare violenze, tipo, che ne so, la prime che mi vengono in mente, la pena di morte o, altra classica, l’infibulazione?
se penso all’infibulazione, mi verrebbe, istintivamente di “occidentalizzare”..
tutto molto delicatissimo, non c’è risposta, e non è necessario schierarsi..
ciao