Non
ci soddisfaceva però la sensazione che il ricordo, la
celebrazione, si sarebbero mossi tra una specie di imbalsamazione di
quelle vicende storiche e una demonizzazione che tendeva a separare i
“buoni” dai “cattivi”. Spartiacque di questa separazione
sarebbe stata, secondo queste interpretazioni, la questione dell’uso
della violenza. Una banalità in sé.
E’
stanca la persona che ho di fronte, ma si vede che ne ha ancora, o
forse quando uno è stato sveglio, finisce che lo è
per tutta la vita. Ha voglia di bere, perché fa freddo. La
tipa del bar è imbarazzata: sembra essere un locale privo di
alcolici. Dico: ti vado a comprare una specie di grappino qui a
fianco. La ragazza mi precede: ha un mignon di non so cosa.
Sorride e pure io, che dentro fa caldo e fuori c’è un vento
fetente. Che rischiara l’aria e luccica la notte bagnata delle
strade. Ci sediamo, è una specie di lobby di albergo. Fuori le
luci dei locali di Sanlitun: come trovarsi a Shanghai, pur essendo a
Pechino, ma l’aria è innegabilmente diversa. La città è
uno specchio deforme di chi la calpesta.
Durante
le ore notturne, al freddo: si colgono meglio i segreti di una
metropoli moderna. Poche auto, confusione dei particolari e un
pensiero: ma dove minchia sono. Poi appare il tipo in pigiama che si
fuma la cicca con quel cazzo di cane che non so perché, tutti
i cani di sta città mi arrivano sempre davanti ai piedi e
iniziano a incazzarsi come delle bisce. Mi viene in mente, sempre un
tale che diceva che il suo cane si incazzava quando incrociava dei
neri.
E’ l’odore zio, diceva. E il tipo che si sfumazza la siga se la ride,
strascicando le ciabatte. In quel momento ho la percezione di quanto
sia bello notare e quanto sia poi straziante il macello del ricordo
ripetuto a parole. E’
impossibile dire ciò che intendo.
Prendo
un caffè: decente. E acqua, tanta, calda. Il liquore fa strane
ombre, mentre la persona di fronte a me parla di lati a cui
appendersi, ricordi cui attingere, sensazioni, la bellezza di non
capirci un cazzo a un bel po’ di anni dopo aver cavalcato la tigre,
la voglia di tornare, per guardare. Mettersi lì e osservare,
ha detto. Sensazioni è la parola che ricorre di più.
Come tali: inspiegabili. Non so cosa aspettarmi, ma quando mi dice
che vorrebbe visitare gli impianti olimpici e il nuovo teatro
ovoidale, percepisco qualcosa. La Cina è grande, direbbe
qualcuno. Trasuda modernità, impressioni grandiose, gli esempi
visivi di qualcosa che si sente, si ascolta. Qualcosa che odora di
attività, di fumi, di scarichi industriali, di centri
commerciali, di insegne luminose, di parcheggiatori, silenzi, balli,
suoni, urla, occhi. Celebrazione di se stessa, come saremo: tripudio
del metallo, scintillante
bellezza, fosforo, fantasia.
Cerco di ricordarmi alcune cose sulla persona che ho davanti. Quegli anni, così vicini, troppo vicini, tanto che pur benedicendoli, non li riusciamo a sconsacrare. Tocca a noi, ecco quello che sa. Domande
sulla Cina, ma soprattutto su di noi. Curiosità critiche. La Cina: un buco nero. Figurarsi da lontano. Penso
alla difficoltà di spiegarsi, quando bisogna attingere da
qualcosa che ancora non si è capito. Incontri pechinesi, le
casualità d’obbligo, le banalità e le solite e imprescindibili coincidenze. Quando mi
saluta e mi sussurra un pensiero accennato, conosciuto e
apprezzato. Mai
più saggezza.
Ah
che sarà che sarà che tutti i loro avvisi non potranno
evitare
che tutte le risate andranno a sfidare
che
tutte le campane andranno a cantare
e tutti i figli insieme a
consacrare
e
tutti i figli insieme a purificare
e i nostri destini ad
incontrare
perfino il Padre Eterno da cosi’ lontano
guardando
quell’inferno dovrà benedire
quel
che non ha governo ne mai ce l’avrà