E
i lavavetri per i miei occhi,
gli
etilometri ubriachi fradici,
i platani decapitati,
i
carri attrezzi con i cuori ammaccati.
Contare
i secondi, smarcare i giorni, tatuarsi i chilometri, incidersi nomi
sulle spalle (come fare e non fare). Entrare nella stanza sbagliata,
scoprirne nuove, rosse caotiche e danzanti, strette tra le dita, stare e andarsene. Potessi dirti quello che nemmeno posso scriverti
esiterei nel farlo. Imparare a tenere chiusi i respiri, i
profondi passi segreti, parole che parlano di parole sui miei occhi affittati. Mi
hanno detto vai e sono andato. Facile come dirti che quei capelli
arrampicati sopra la testa disegnano architetture tragiche. Costruire
il cubo d’acqua, buio, la quiete del nuotatore, la visuale ingrandita
dal cloro, pezzi di dita bianche, squarci di acqua troppo calda per
acrobazie da trampoli improvvisati (diranno come sono alte le dighe). Tagliare la città e vederne il ventre, la morbidezza delle punte e la puntigliosità dei detriti umani.
E digerirne lo stomaco, a fatica e di corsa, aria condizionata, respiri tossici,
taxi veloci, macchine parcheggiate chissà dove, stazioni di
benzina sconsolate. Delle nostre conversazioni serie si arricchiscono solo le compagnie telefoniche (e chiedere: sposteresti un
po’ più in là il tuo ego? Devo guardare le libellule e mi piacerebbe farlo da solo). Spazi vuoti: non c’è mica niente di male
se vuoi stringerti rimbalzando tra le pietre, bianche, una
sull’altra, appoggiate su travi troppo lente, basse, contenute, avvizzite, quelle dei cessi pubblici. Troppo scure la notte per un passo
imbarazzato e rapido. Rotaie e binari: di che ti preoccupi: sono in transito come un treno merci,
un camion di consegne industriali, materiali di arredamento,
documenti sconclusionati, effemeridi schizzate. (Diranno
che non ho mica vent’anni. Ne ho molti di meno, e questo vuol dire,
capirai, responsabilità). Consegno strettoie e labirinti: al
cuore e alle spalle e all’asfalto. Farò rifare una torre appuntita, alta e riparata, se mai avrai bisogno di scenari improvvisati, erba plastificata, moquette di seconda mano. Mica ci si chiederà dove finiscono i camion di Gondrand, dopo avere consegnato, bestemmiato e rassettato?
Repertori
invecchiati da mangiadischi arruginiti e sguardi stellati, produzioni immaginarie di birre spezzate. Fughe e
ripari, svolte e rettilinei, code e traffico e alito e fumo. Danze,
passi stanchi, fuochi desiderati. Cercare sguardi lontani solo per
buttare il mozzicone di sigaretta, sedersi su gradini e aspettare, arrotolarsi le maniche corte e scoprirsi privi di carte buone, ferite a sufficienza, scarpe strette bene. (vieni
con me sulla circonvallazione, che ho voglia di stordirmi un po’ con
i fumi dello smog.)