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[Beijing] Panic

Hai
detto che mi avresti aiutato stamattina

a
conficcarmi spilli acuti negli occhi.

Ci
siamo agganciati ai soffitti

arrampicandoci
sui muri con le nostre mani ubriache.

Una
sera appoggiata al cofano di un’auto hai detto di non saper valutare
le stranezze. Io fumavo e ti guardavo. Qualcuno era passato e aveva simulato un insulto. Avresti fatto esplodere tutto e mi sarebbe piaciuto
vedere la tua faccia, poco prima di premere il tasto mentre aggiungevi il mio nome al tuo elenco di cose incomprensibili. In questa città
calpestiamo asfalto, come calpestare parte di noi, colorato e
profumato per lozioni cosmetiche per i battistrada delle auto. Da
schiacciare, di fretta, senza voltarsi. Squarci di via, pareti
sconnesse e il tempo. (Quanto a me vedi, le persone non cambiano.
E’ che il tempo, col tempo, le complica più di un po’
).

Mi
hai chiamato e mi hai chiesto dell’inquinamento. Come parlare del
tempo e della ferrovia, dei ritardi e delle code e delle biglietterie
che in Italia nelle piccole città chiudono
presto e non sai mai cosa fare. Abbiamo parlato delle stazioni cinesi, piene di gente, come fosse l’unico posto nel quale percepire davvero la quantità di vite che si scontrano da queste parti. I cinesi spingono, si lamentano gli stranieri. Hai sorriso e hai ricordato cosa voleva dire salire sull’8, o sul 12, o sul 20 alle 8 di mattina, mentre il vento genovese ti spazzola i pensieri, il cibo mangiato e il caffè ancora da bere. Mi hai ricordato dove ero, perché sai
fin troppo bene la verità. Abbiamo parlato dello smog,
intuendo la mia ricerca tra le fogne scoperte di odori diversi.
Nebbia gialla a strofinarsi sui muri. (Direi, ho camminato al
crepuscolo per strade strette
). E attraversare la strada,
aspettare segnali, schiacciare persone, sorridere ad automi. Ti ho
detto che andiamo ad iniziare la nostra visita, e farci sconquassare
dalla placida gioia di incontri improvvisati, su marciapiedi
sorvegliati. Stiamo qui per non stare di là. Trovare validi
motivi per non mangiare un panino accanto ad un uomo con
un mitra in mano e un cannone nel cortile. Accontentarsi, compromettersi.

Mi
hai fatto domande precise, ma nel tempo inutile e peccato non
ricordare le esatte parole, perché ti avrei detto che non era
per niente quello che intendevo. E mi sono chiesto come possa essere
che parlo alla gente solo quando non può ascoltare. Ho sentito un freddo improvviso leggendo alcune parole e la pioggia che batteva sui vetri tichettava i secondi che passavano senza che un’idea mi sorridesse da dietro la porta (e la smetterano di menarla con l’inquinamento). Mi hai chiesto del mio lavoro. Abbiamo intrapreso sentieri
scogliosi e non potremo scorgere gli angoli più scintillanti.
Pechino a volte mi ricorda una maschera con uno scialle bianco appoggiato sulle
spalle, come quelle nelle credenze di legno di alcune vecchie donne genovesi.

Posted in Pizi Wenxue.