Ieri
sera sono andato a vedere per la seconda volta Bolt (quello che ha vinto 100 e 200) e mi è
toccato scriverci. E mentre scrivevo avevo in mente una roba che
scrisse Baricco anni fa (nel 1994 che aveva sta rubrica su La Stampa) su Carl Lewis. Un po’
come quando ti rimbalza una canzone di cui non intravedi i contorni
per ricordarla. Però la cerchi on line, la scarichi e ti levi il problema. Oggi ho un po’ ravanato e l’ho
trovato, grazie agli archivi on line de La Stampa.
L’articolo è qui sotto. Come diceva Beppe Viola, sarei
disposto ad avere 37 e 2 tutta la vita in cambio della
seconda di servizio di Mc Enroe…
Lewis,
gli occhi del mito sono due uova al burro
Nel
gran mare di soccer (si dice cosi’, adesso, e sembra un’imprecazione
in bolognese) in cui navigano giornali e tivu’, provo a far tornare a
galla il ricordo di quando sono andato all’Olimpico, un po’ di sere
fa, a vedere uno che non avevo mai visto, dal vivo, e che bisognera’
pur vedere, una volta, prima che smetta di volare: Carl Lewis, quello
delle otto medaglie olimpiche, quello dello sport pulito, quello in
tacchi a spillo per far pubblicita’ ai pneumatici: il figlio del
vento. Li’, a Roma, al Golden Gala, Grand Prix di atletica,
quarantamila spettatori, il magico pubblico romano, dice lo speaker
con tono da documentario Luce del ventennio. Vista dalla tribuna
stampa l’atletica e’ una cosa simile a un pomeriggio all’oratorio.
Gente che gioca, di qua e di la’, ognuno al suo gioco, e tu non sai
dove guardare. Ogni tanto gli oratoriani si incrociano, con effetti
vagamente comici. Per dire: se ne sta come una statua greca,
Sotomayor, il cubano che salta piu’ in alto di tutti, fissando
l’asticella con una intensita’ da amplesso telepatico, ed e’ un
duello magnifico e immobile, in attesa dell’esplosione del salto, se
non fosse che poi tra gli occhi dell’uno e la fissita’ orizzontale
dell’altra se ne passano scaracollando quelli dei tremila siepi, dei
poveracci, al confronto, delinquenti in fuga, diresti, le scarpe
grondanti acqua, i crani scheletrici dei keniani, il fazzoletto
grunge legato sulla testa di Panetta, le magliette marce di sudore,
gli occhi vagamente atterriti. Sotomayor si vede passare in camera da
letto l’allegra brigata di sbandati ma nemmeno sembra accorgersene:
continua il suo coito privato con l’asticella.
Come all’oratorio,
quando ti schizzava davanti, palla al piede, l’ala destra di una
qualche partita, e tu neanche lo vedevi perche’ stavi giocando a
figurine (a muro) e ti fosse anche passato un treno, li’ davanti,
quel che vedevi era solo il Bulgarelli che avevi in mano e il muro.
Fatte le debite proporzioni, si intende. Fatte le debite proporzioni,
il figlio del vento scende in pista come se fosse un dio. In maglia
rossa e fuseaux neri. Quando capisco che non sono fuseaux ma gambe
pure e semplici capisco che l’atletica non si puo’ guardare dalle
tribune e scendo giu’, facendo finta di essere un fotografo e finendo
ai bordi del campo. E cosi’ lo vedo, davvero questa volta, da vicino.
Faccia tirata, gli occhi un po’ spiritati, come uova al burro in un
piatto nero, muscoli carenati per alte velocita’ (ancora un po’ piu’
su e le chiappe potrebbero tranquillamente servirgli da poggia
testa), gesti calcolati al millimetro come regolati da una
coreografia. Gli altri si scaldano: lui volteggia. Si e’ portato
dietro il suo clan del Santa Monica: c’e’ Leroy Burrel, occhi da
Bambi e muscolatura esagerata, c’e’ Mike Marsh, che sembra Spee-dy
Gonzales, un turbo topo. Ce l’ho proprio davanti, il turbo topo,
mentre si sistema i blocchi di partenza con un metro da sarta,
limando i millimetri con la serieta’ di un orologiaio che sistema
rotelle e viti. E’ il primo frazionista della staffetta 4×100. Brutto
a vedersi ma quando si ingoia una ventina di metri, cosi’ per
scherzo, per sciogliersi i muscoli, sembra che la pista nemmeno la
tocchi. Se ne torna ai blocchi camminando goffamente, con l’aria
soddisfatta di uno che s’e’ fatto una bella sfollata al semaforo. Si
risistema giu’ in quella specie di genuflessione che e’ come una
miccia accesa. Gli impazzisce il diaframma, nei pochi istanti prima
del via e nel silenzio pazzesco del microsecondo che precede lo
starter riesco a sentire il sibilo da agonia con cui si riempie di
ossigeno i polmoni e il cervello prima di sparire lungo la curva e
andare a respirare di nuovo cento metri e dieci secondi piu’ in la’.
Ho ancora la sua immagine negli occhi quando dal fondo del rettilineo
parte King Carl, col testimone in mano e quarantamila romani a
guardarlo e a urlare. Non c’e’ gara, a far fuori gli avversari ci
hanno gia’ pensato i primi tre staffettisti.
Corre praticamente da
solo, il semidio, lui contro il cronometro, con quella sua corsa da
galleria del vento, non una sbavatura nel profilo da coupe’ in
autostrada, le mani rigide come lame, la schiena dritta come a
tavola, gli occhi inchiodati in un unico punto cieco da cui si
staccano solo nell’istante dell’arrivo per rimbalzare meccanicamente
sul tabellone, alla ricerca del tempo, nemico immateriale e
imperturbabile, quattro cifre stampate lassu’, quattro cifre che ti
possono cambiare la vita. Mette in folle, Lewis, appena tagliato il
traguardo, e lascia andare le gambe, come un ciclista in discesa.
Sulla spinta me lo vedo arrivare di fronte, e alla fine fermarsi
proprio davanti. Non e’ sudato, non e’ affannato, sulla faccia ha il
grado zero dell’espressione. Il nulla. Per un attimo, prima che lo
seppelliscano fotografi, compagni, giudici e gente varia, riesco a
stamparmi nella memoria quella strana foto. L’uomo piu’ veloce del
mondo, da fermo, sembra che non esista nemmeno.
(Alessandro
BARICCO)