Vabbè
la trovate anche qui, o sul Manifesto di qualche giorno fa (questa qui sotto però è la versione integrale, quella non "passata"…). Però
a sto giro la metto pure sul blog…
Socialism
is great è il titolo del libro di Zhang Li Jia, scrittrice
e giornalista cinese. Nata a Nanjing, oggi vive a Pechino dopo alcuni
anni trascorsi in Inghilterra. Zhang Li Jia rappresenta una delle più
gradite sorprese del panorama letterario cinese, o quasi, perché
il suo libro, pubblicato in India, Gran Bretagna e Stati Uniti, è
scritto in inglese ma è proibito in Cina (ad eccezione di
alcune librerie in cui si può comprare). In Socialism is
great, c’è la sua storia, fatta di ribellione e voglia di
determinare il proprio futuro. A 16 anni Li Jia è spedita a
lavorare nella fabbrica di missili di Nanjing. Una fabbrica militare,
con molti segreti e una ferrea disciplina. Cina fine anni 70 e inizio
anni 80: quella della riforma, del passaggio, del cambiamento totale
per milioni di cinesi. Lei non si taglia i capelli e viene
rimbrottata, legge libri inglesi durante i comizi propagandistici e
viene ostacolata nei suoi sogni. Una continua lotta, tra disciplina,
amori e passione politica. In Socialism is Great la sua
esperienza è una cartina di tornasole di un periodo storico
che per la Cina non si è ancora concluso.
Li
Jia aveva un sogno principale: imparare l’inglese e diventare una
giornalista. Imperterrita. Nel 1989 organizza una dimostrazione in
solidarietà con gli studenti cinesi. Viene fermata, le sue
impronte digitali vanno a fare compagnia a quelle di tante altre.
Lei, alle accuse di polizia e capi, risponde con le citazioni di Mao:
ribellarsi è giusto, ma anche, dove c’è
repressione, c’è ribellione, lasciando in silenzio i
solerti funzionari dell’ordine del Partito. Il libro finisce lì,
in quell’anno, durante quegli eventi, ancora oggi tabù
innominabile nella Cina che avanza, che compra, che impera. Lei
invece ha proseguito la sua storia, diventando una giornalista che
scrive su giornali stranieri e riceve interviste dai media di tutto
il mondo. Invitata a tanti incontri, festival letterari e speech,
l’ultimo all’ambasciata statunitense di Pechino, celebra il suo
ruolo, quello che voleva essere quando lavorava in fabbrica: un ponte
tra Cina e Occidente.
E’
solare, gira per Pechino in bicicletta, sfrecciando con i suoi
vestiti colorati, a testimonianza di una vitalità e
determinazione forte. Su alcuni periodici stranieri pubblicati in
Cina, le sue recensioni o interviste vengono letteralmente stracciate
dalla censura cinese, ma il suo scopo si racchiude proprio in questa
bizzarra considerazione: raccontare le contraddizioni del suo paese.
Che ama, rispetta e vorrebbe semplicemente, più vicino al suo
modo di pensare. E di cui sfrutta quel lento e impercettibile
cambiamento, anche in tema di libertà di opinione.
Nel
suo libro di memorie, si incontrano spesso dialoghi molto serrati
sulle questioni politiche di allora. Come mai quando c’era più
controllo si parlava di politica e oggi invece non se ne parla,
nonostante le aperture?
La
Cina negli anni 80 era un paese molto diverso. Quegli anni credo
siano stati i più interessanti, un periodo molto vitale,
affascinante. Il paese cominciava a cambiare, perché prima,
durante la rivoluzione culturale, la Cina era completamente isolata
dal mondo, c’eravamo imposti un auto isolamento. Prima degli anni 80
pensavamo di vivere una vita felice, mentre negli Usa o a Taiwan ad
esempio pensavamo vivessero una vita di sofferenze, terribile. Quando
ci siamo aperti abbiamo scoperto un mondo diverso, differente da come
lo conoscevamo. Abbiamo cominciato a parlare di tante cose, diritti,
democrazia e a Nanjing ad esempio, nell’università, tutto le
lezioni erano stimolanti, si parlava di Freud, Nietsche, era un
continuo dibattito riguardo il futuro del nostro paese. Oggi tutto
questo è considerato pericoloso. Dopo il 1989 il governo
cinese ha trasformato le teste delle persone, indicandogli la strada:
i soldi. Così che tutte le energie vadano a finire lì,
a fare soldi, pensare ai soldi, come gestirli come farne di più.
In questo senso oggi ci sono anche moltissime libertà che
prima non c’erano. Oggi un cinese, almeno nelle grandi città,
può scegliere che tipo di vita fare. Prima non era possibile.
Certo, parlare di riforme o politica, oggi è proibito, off
limits. Per questo ai giovani oggi la politica non interessa.
Godetevi le libertà, ma non parlate di politica…
Qual
è la causa secondo lei?
Soldi,
solo i soldi.
Cosa
pensa della “vita nel presente” dei cinesi e la mancanza di una
memoria storica riguardo a eventi anche recenti, come la rivoluzione
culturale?
Il motivo è che non se ne sa abbastanza. Non
ci sono musei, non abbiamo mai affrontato realmente quell’evento,
perché il governo non ne vuole parlare, come il 1989 del
resto. Della rivoluzione culturale ricordo la mia infanzia piacevole
e mia madre, accusata di essere controrivoluzionaria e interrogata,
presa e anche picchiata. Poco altro. Una pazzia. Ho chiesto alcune
cose a mia madre per scrivere il mio libro, ma nessuno vuole
ricordare, perché fu un periodo di sofferenze costanti.
Dimenticate il passato, dicono i cinesi e anche il governo. Mao ebbe
le sue parti di responsabilità, ma era il sistema ad essere
sbagliato. Lui fu autorizzato a diventare un mostro. Ancora oggi però
è impossibile avere un’idea precisa di cosa accadde.
In
una articolo sull’Observer, pubblicato un anno fa, rimproverava i
media occidentali di ergersi a giudici, invitando ad una conoscenza
più approfondita della Cina. In un anno, dopo le Olimpiadi, è
cambiato qualcosa?
Un
giornalista inglese che ho incontrato tempo fa, era rimasto sorpreso
dal fatto che la Cina sia oggi un paese così avanzato,
moderno. E invece siamo famosi solo per altre cose…Invece di essere
open minded, spesso si preferisce avere un’idea
preconfezionata della Cina. Pensa solo a quanto successo in Tibet.
Una cosa veramente complicata, ma non penso che i media occidentali
abbiano fatto un buon lavoro. Certo il governo cinese avrebbe fatto
meglio a fare arrivare là i giornalisti, così da vedere
realmente cosa accadeva. Ma tutti hanno parlato di rivolte, mentre
non fu una rivolta politica, voluta dai monaci, fu una lotta
razziale, contro gli han. Chiaro che molti tibetani non sono
contenti, ma i cinesi hanno fatto tanto per loro.
Perché
secondo lei il Tibet ha così successo, specie nell’ambito dei
media stranieri?
Perché
il Dalai Lama è un personaggio esotico, perché il Tibet
molti lo immaginano in modo fantasioso, non sanno cosa sia meglio per
risolvere la questione. Prima del 1951 il Tibet era un posto
terribile. La causa tibetana ha successo anche perché il
governo cinese non ha idea di come si gestiscano le pubbliche
relazioni, al contrario del Dalai Lama.
Quindi
uno straniero cosa dovrebbe fare per capire meglio il suo paese?
Essere
aperti, girare la Cina, perché Pechino è solo una parte
della Cina. E poi farsi degli amici cinesi, semplice.
Nel
suo libro riguardo Tien’anmen ci sono molte considerazioni. Ancora
oggi tanti ritengono che una delle cause principali fosse la
corruzione del Partito. E’ cambiato qualcosa in vent’anni?
C’è
ancora corruzione, è un prodotto dello sviluppo. Qualcosa però
è cambiato. Non abbiamo un sistema politico e dei media
trasparenti, ma rispetto a prima la corruzione non è il
problema più importante.
Qual
è il più importante?
La
povertà e la disparità sociale, tra ricchi e poveri. E’
un conflitto che costituisce un problema. Penso che sia per quello
che il nostro governo parla di armonia, ma la nostra non è una
società armonica. La vera domanda è quanto sia
sostenibile questa crescita, senza un aumento degli spazi
democratici. Ma in Cina si stanno giocando tante sfide importanti,
ambiente, democrazia, corruzione. Io credo sarà un passaggio
lento e graduale, quando ci si accorgerà che le aperture
faranno andare meglio le cose.
Cosa
intende per democrazia?
Elezioni,
il voto, diritti, separazione dei poteri, sistema dei media
trasparente.
Chi
può essere il soggetto che guida questa trasformazione?
Io
credo sia la classe media e intendo i professionisti, persone che
hanno studiato, imprenditori e intellettuali, quelli che sono stati
all’estero e che sono tornati indietro. Per fare un esempio, la gente
da tempo ha cominciato a chiedere la possibilità di discutere
come concepire il proprio quartiere, le strade, la vita. Vorrebbero
solo dire la propria. Non vogliono andare in giro a protestare,
creare problemi. Vogliono solo premere sul Governo, dire la propria
idea, facendo le cose, collaborando. Il governo cinese è
veramente elastico e penso che la middle class insieme al
governo cinese possano essere i driver del cambiamento. Loro
per sopravvivere devono aprirsi. Ho incontrato Peter Mandelsson
(politico laburista britannico, indicato da molti come principale
artefice del concetto di New Labour, ndr) era stupito dalla
conoscenza dei cinesi della politica inglese. E la sua impressione è
che il Partito Comunista non voglia lasciare il potere, ma diventare
in qualche modo più popolare. E in effetti lo sta facendo,
togliendo tante cose stupide che prima erano la regola, come l’esame
per la verginità prima di sposarsi, è un esempio
naturalmente. Devono rinnovarsi, per rimanere al potere. La società
cinese è molto materialista, ma le persone hanno diversi
livelli di vita, quando hai fame non ti interessa la democrazia, ma
quando elimini i problemi materiali, ritorna il bisogno di
spiritualità, di ideali.
Lei
ha lavorato in una fabbrica, cosa pensa delle condizioni di lavoro
attuali nelle fabbriche cinesi?
La
mia fabbrica era militare, la vita era tutta controllata, nei minimi
dettagli, ma le condizioni di lavoro non erano male. Non lavoravamo
così tanto, oggi invece, sono andata a vedere, le condizioni
di lavoro delle donne sono terribili. Il mio prossimo libro sarà
sulla prostituzione delle ragazze che lavorano nelle fabbriche. E’ un
grosso problema, realmente doloroso. Le donne non godono di nessuna
protezione. La mia fabbrica provvedeva a tutto: casa, spese
sanitarie, libreria, cinema. Ti controllavano anche la vita, ma
lavoravamo meno.
Le
manca qualcosa di quel periodo?
Penso
l’idealismo. Abbiamo perso molta innocenza. Incontro ancora alcuni
amici dell’epoca, ma mi manca la passione di quel tempo: l’amicizia e
l’innocenza che ci voleva desiderosi di fare della Cina un posto
migliore.
ajorn!!
non so se è stata utilizzata per adv…sicuro per libri e robe giornalistiche…se non sbaglio il blog del corresponsal pechinese del corriere della sera di qualche tempo era proprio “la cina vicina” e credo che svariati titoli di svariati articoli fossero così…
vicina sti cazzi, però, aggiungerei…
bellaaaaaa!
:-*
b.
la cina è vicina 🙂
piccola curiosità – ogni tanto si vedono manifesti pubblicitari – che usano slogan di sinistra per vendere un po’ di tutto – che tu sappia questo (la cina è vicina) è mai stato usato??
che ne so – voli milano-pechino – 259 euro senza spese portuali – ryanair – la cina è vicina 🙂