In
un supermarket di Cleveland, alla vigilia di Natale del 1980 si
svolge una rapina. Una pallottola vagante uccide per sbaglio una
donna, Stella Walsh. Nel posto sbagliato al momento sbagliato, la
vittima non è però una donna comune: è un’atleta
che aveva frantumato qualcosa come 35 record del mondo nella sua
carriera agonistica, una stella dell’atletica. Nel 1932 e nel 1936,
alle Olimpiadi, era stata la donna più veloce del mondo.
L’autopsia dopo l’omicidio però svela un retroscena: Stella
Walsh è ermafrodita. E ancora: 1936 Olimpiadi naziste di
Berlino. Nel salto in lungo femminile Dora Ratjen si classifica
quarta, ma solo vent’anni dopo confessa: in realtà è un
uomo e dirà di essere stata spinta dai gerarchi nazisti a
gareggiare con le donne. Storie di uomini e donne, catapultate nello
strano universo sportivo mondiale.
Tra
gli anni 30 e oggi tanti casi simili, mentre ieri a Pechino, alla
luce del sole, Edinanci Fernandes da Silva, ermafrodita judoka
brasiliana, ha sfiorato uno storico bronzo, dopo aver battuto – prima
di essere eliminata – l’italiana Morico, già bronzo ad Atene.
Non è la prima partecipazione di Edinanci alle Olimpiadi,
anzi. E’ la quarta, perché aveva già partecipato ad
Atlanta a Sidney e ad Atene, dopo aver ottenuto il permesso dal Cio
di gareggiare. Non senza polemiche, specie con le avversarie battute.
Edinanci, veterana olimpica ormai, è arrivata a Pechino con il
titolo di campionessa dei giochi panamericani, dove ha trionfato nel
judo categoria 78 chili. E il sogno olimpico ieri, lo ha accarezzato
per alcune ore. Nata nel 1976 in una umile casa di Paraiba, ha
iniziato a gareggiare nel judo, come terapia e come rivincita. A
vent’anni ha ottenuto il certificato di femminilità, dopo
un’operazione: per lei si sono aperte le porte delle Olimpiadi. E con
esse la notorietà mondiale e le polemiche per la sua forza
fisica che costiruirebbe un’arma immensa, ma poco gradita.
L’argentina Briceno l’ha difesa, ma c’è anche chi non ha perso
tempo a polemizzare. L’australiana Natalie Jenkins, dopo aver perso
contro la brasiliana alle olimpiadi di Sidney, nella conferenza
stampa continuò a chiamare Edinanci ora “lei”, ora “lui”.
La judoka brasiliana anziché innervosirsi le rise in faccia,
mostrandole il certificato che attestava la sua sessualità e
ritornò a colorarsi i capelli biondi, come le piace fare
durante ogni competizione.
E
il tema della sessualità degli atleti alle Olimpiadi ha una
storia lunga: prima del 1968 in Messico, insospettiti da prestazioni
sfavillanti e tratti mascolini di atlete donne, specie dei paesi
dell’est sovietico, gli organizzatori facevano sfilare nudi i
sospetti per accertarne i particolari scabrosi. Dalle Olimpiadi
messicane si passò agli esami cromosomici, ma nella speranza
di chiarire le cose, la vicenda sprofondò in un gran casino:
Ewa Klobukowska, atleta polacca, nel 1967 fu bandita dalle gare
perché non passò il test, nonostante fosse sfilata nuda
davanti ai medici solo l’anno prima. L’anno dopo diventò
madre. Nel 1980 l’ostacolista spagnola Maria José Martinez
Perino scoprì, con sua sorpresa, di essere in realtà un
uomo. Era nata con il cromosoma Y, quello che dovrebbe determinare il
sesso maschile. Ma neanche lei lo sapeva.
Ad
Atlanta questi controversi test vennero sospesi, anche perché
tutte le pizzicate vennero riammesse, mentre nelle attuali Olimpiadi
di Pechino si assiste ad un ulteriore salto di qualità: è
stato messo in piedi un sex-determination laboratory. Il Cio vuole
essere certo «al cento per cento» che quelle donne-atlete
su cui si nutrono sospetti siano effettivamente donne. Il professore
cinese Tian Qinjie, ha spiegato il funzionamento del laboratorio:
«Gli atleti sospetti saranno dapprima valutati dal loro aspetto
esteriore da alcuni esperti, quindi saranno sottoposti a una serie di
quattro test, inclusi esami del sangue, degli ormoni, dei geni e dei
cromosomi. Il nostro obiettivo è ottenere risposte nella
maniera più scientifica possibile».
Oggi
però, contrariamente al passato, i transessuali che passano
dal genere maschile al femminile possono gareggiare nella nuova
categoria purché abbiano effettuato l’operazione da almeno due
anni. E i casi controversi nella storia dello sport non mancano. Il
fatto recente più tragico è quello dell’indiana Santhi
Soundarajan: vincitrice dell’oro ai giochi asiatici negli 800 metri,
nel dicembre 2006 in Qatar. Dopo essere corsa a casa a festeggiare,
arrivò l’inaspettata doccia fredda: non è una donna,
disse la prova genetica cui fu sottoposta. Secondo il Times of India
il test, condotto da un equipe di medici che includeva ginecologici,
endocrinologi, psicologi e uno specialista di medicina interna, aveva
stabilito che l’atleta non
possedeva «le caratteristiche sessuali di una donna». Nel
1999 una giocatrice di calcio della nazionale indiana fu privata
della medaglia d’argento per lo stesso motivo. Nel settembre 2007
Santhi Soundarajan ha tentato il suicidio.
Yvonne
Buschbaum, bronzo nell’asta agli Europei del 1998 e del 2002, ha
fatto invece il passaggio contrario, decidendo di ritirarsi: «Mi
sento un uomo intrappolato nel corpo di una donna – ha dichiarato sul
suo sito internet – Sono consapevole del fatto che questo sia un
argomento controverso, non voglio nascondere nulla e voglio chiarire
che non mi sono mai dopata. Voglio solo ritrovare la mia serenità.
È normale essere diversi, sono felice di aver intrapreso
questa strada e che presto sarò in pace con me stessa». [da il manifesto]
super interessante!
grazie beirut