Lin Dan ha vinto l’oro. Il giorno prima è stato celebrato…in anticipo.
In
Cina si dice che quando Lin Dan espresse il desiderio di diventare un
campione del badminton, il suo allenatore gli disse più o meno
così: «piazzati davanti a quel vetro e finché non
lo tiri giù a furia di smash non farti vedere da queste
parti». Il piccoletto, un po’ magro, un po’ basso, ma
determinato, non si è perso d’animo ed è diventato un
campione. Ha una faccia da schiaffi e un’aria da bulletto di
periferia, ma Lin Super Dan è ormai un idolo dello sport
cinese, capace di unire talento sportivo e capacità mediatica
da esperto di marketing. E stasera si giocherà la finale per
l’oro nel badminton, sport nel quale negli ultimi quattro anni è
diventato il numero uno in ragione di un rush finale durato
ventiquattro mesi, in cui ha vinto tutto: mondiali (due volte di
fila), giochi asiatici, World Grand Prix. Gli manca solo il primo
posto olimpico, anche per dimenticare quella figuraccia fatta ad
Atene nel 2004, eliminato al primo turno.
Nel
frattempo è diventato una stella con arroganza, ingordigia,
competitività, dicono i suoi detrattori, con velocità,
poesia e forza, sostengono i suoi fan. Super Dan non è uno che
passa inosservato. E se il badminton dalle nostre parti è un
oggetto misterioso quasi più del curling, per chi se lo
ricorda ancora, in Cina e in Asia in generale, è una
disciplina molto praticata. A suo modo il badminton è
considerato molto più di un’attività agonistica:
racchiude l’Asia in un campo simil tennis, con un volano che compie
volteggi densi di cadute improvvise o salti in alto, tra movimenti
frenetici, colpi secchi e giravolte da film di Hong Kong. Per i
cinesi è una sorta di ossessione sportiva, al pari del ping
pong e del basket. Romantico, popolare, elastico: asiatico.
A
Pechino, come in altre città del Dragone, ci giocano nei
parchi, per strada, anche di notte con sfide improvvisate sui
marciapiedi tra ragazzini, anziani, padri e madri e figli, nelle
palestre sconfinate di campi, circondati da tavoli di ping pong. E
come per il tennis da tavolo, alle Olimpiadi, la pressione è
al contrario: l’atleta cinese del badminton fa notizia quando perde,
non quando vince. E quando arriva una sconfitta, si incazza mica
male. Lin Dan è un McEnroe in miniatura, come hanno scritto
alcuni giornali statunitensi, per dare l’idea del suo temperamento,
talento e presenza mediatica. Per questo oltre ai suoi successi è
famoso per le sue urla di rabbia e per le racchette tirate
dappertutto. A gennaio di quest’anno la sua è volata, dopo una
serie di insulti, dalle parti del tecnico della Corea del Sud. Al
gesto è seguito un corpo a corpo fatto di paroloni e minacce:
li hanno dovuti separare e appena raggiunta la calma Lin Dan non ha
pensato neanche per un secondo a scusarsi. «Lui ha insultato me
e tutta la squadra cinese», ha dichiarato. Toccata sul
patriottismo, la Federazione Cinese di Badminton lo ha perdonato: «è
comprensibile la sua reazione – hanno detto – poiché è
stato provocato». Più controversa la lite con il suo
mister poco prima dell’inizio delle Olimpiadi, terminata con una
smentita di entrambi sull’accaduto e la richiesta di non rendere
troppo ansiolitica l’attesa. E Lin Dan è un personaggio da
copertina anche extrasportiva. Alle occidentali storie d’amore e nudi
in vasca, la Cina replica con la storia sentimentale tra l’atleta di
punta del badminton maschile e quello femminile: Xie Xingfang,
fidanzata di Lin, era anche la numero uno cinese, prima di perdere
proprio ieri la finale olimpica contro una connazionale. C’è
da credere che una dedica, in caso di vittoria del moroso, arriverà
proprio per l’ex regina del badminton locale (entrambi suggellarono
la nuova relazione vincendo i mondiali in Spagna nel 2006).
La
biografia di Lin racconta che a 5 anni, guardando un match di
badminton olimpico, il piccolo disse che sarebbe diventato un
campione a cinque cerchi. Poi prese la racchetta e, dopo aver
constatato che l’attrezzo del mestiere era più alto di lui,
non si diede per vinto e cominciò a picchiare come un fabbro
su quella pallina piumata che contraddistingue lo sport in cui
eccelle. Cresciuto sportivamente nell’esercito, come tanti altri
prodotti dei laboratori sportivi cinesi, la stella di Super Dan è
sbocciata solo post Olimpiadi di Atene del 2004. Prima del 2005 e
durante la sua gestazione come primadonna nazionale, Lin Dan appariva
come una via di mezzo tra uno sfigato cronico e un potenziale
campione dal dubbio futuro. Vittima di scherzi durante la sua vita
militare, sembrava il tipico arrivista che mai ce l’avrebbe fatta. E
invece, oggi a fine gara Lin Dan può permettersi i riti da
star, come un calciatore o uno dell’NBA, perché con quella
faccia da furbetto romantico, sa come fare entusiasmare le sue fan.
Tira al pubblico la sua maglietta e usa piroette di effetto per
rialzarsi dopo cadute a terra per colpire. Riempie le pagine del suo
blog di foto e atleticamente c’è, eccome. Nelle qualificazioni
per la finale olimpica ha sciorinato colpi e tecnica, velocità
e stoccate anche da terra, ridicolizzando i propri ansimanti
avversari. Funambolico, una sorta di brasiliano del badminton, ha
dimostrato anche di avere raggiunto una sorta di equilibrio tra la
sua foga agonistica e una sana educazione sportiva, olimpica. Per la
consacrazione, oggi ha un ultimo ostacolo: si chiama Lee Chong Wei,
un malese alla ricerca della prima medaglia d’oro in assoluto per il
suo paese. Per Super Dan, un altro vetro da tirare giù.
Le Olimpiadi dei perdenti
A
Pechino c’è anche chi vola via dal mare olimpico vittorioso,
per annusare le stelle dei perdenti. Succede in uno dei sinuosi e
storici hutong della capitale cinese, proprio nella serata che
precede la gara dei 100 metri e degli uomini più veloci del
mondo. All’evento si affianca una festa lenta e rilassata per la
strada stretta e bianca, circondata da tetti curvi, incisi da rilievi
e sguardi severi. Sono quelli che compaiono dai vetri delle tante
macchine della polizia, passate per capire cosa sia quell’accrocchio
di stranieri, cinesi, bongos, giocolieri e vecchietti. Ieri sera in
Xiao Jin Chang, viuzza di un hutong nei pressi del Tempio del Lama,
si sono celebrate le Olimpiadi dei perdenti, tra carne al barbecue,
birrette e medaglie di carta regalate ad ogni partecipante spontaneo.
Perdenti radunati per celebrare sconfitte, ma anche per non
rassegnarsi a vedere le Olimpiadi passare come un trattore sulla
vitalità e la socialità di strada della vecchia
Pechino. Mentre si celebrano le vittorie, la capitale sembra un po’
stranita, tra feste delle varie delegazioni straniere e annullamento
dell’ordinaria movida locale. Ed allora ci vuole la celebrazione di
sconfitte, per regalare un momento di vitalità inaspettato.
C’erano persone di tutti i tipi e da ogni paese. C’era anche chi,
giunta un’auto della polizia a chiedere cosa stesse succedendo, ha
risposto al serioso uomo in divisa: «vuoi un po’ di carne?»
Stranieri e cinesi, musica di sottofondo e abitanti dell’hutong che
piano piano sono usciti dalle proprie case e hanno partecipato al
banchetto mangereccio e ludico per la strada. Anche perché tra
un video (di disfatte sportive cinesi, giusto per rimarcare che si
può anche parlare delle proprie figuracce, non solo quelle
degli altri) e balletti improvvisati si è poi passati alla
pratica sportiva. Si fa per dire: simulazione dei cento metri con
qualche ora di anticipo, con un videogioco e via a partite sportive
in cui si è anche visto un padre cinese menarsi con il figlio.
Virtualmente si intende. E il figlio gliel’ha suonate, muovendosi
arzillo e rapido e alla faccia di Confucio. Le Olimpiadi dei perdenti
avevano anche un premio in palio, un po’ paradossale: un biglietto
per una gara olimpica, quella vera, dalle parti del Nido e del Cubo
d’Acqua, che nella sera dell’hutong sembravano su un’altra galassia.
Il biglietto lo ha vinto chi si è classificato più o
meno a metà nelle sfide virtuali. Il giusto mezzo, per
rimanere in tema. Una vecchietta abitante del quartiere, gonna blu e
calzette bianche, ha vinto il ticket magico: non se l’aspettava
davvero. E infine dallo stadio dei Lavoratori è arrivata la
notizia che ha riunito la via: l’Italia di calcio è stata
eliminata dall’Olimpiade, sconfitta. Non poteva essere altrimenti. [Da Il Manifesto]