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[Wuhan] Caldo e freddo [3]

3.

Mi
sono guardato piangere in uno specchio di neve
mi sono visto che
ridevo
mi sono visto di spalle che partivo
Ti
saluto dai paesi di domani
che sono visioni di anime contadine

in volo per il mondo

Ci
sono stati dei momenti in cui la banda dei quattro si è
trovata intorno al fuoco nel silenzio generale, con due cani a
rovistare tra i pensieri che scendevano verso i piedi. Inesorabili e
vivi. E mentre il fuoco regalava traiettorie di colori inaspettati
avrei voluto che ogni piccola fiamma recapitasse ad ognuno un
pensiero. A lei, per esempio, avrei voluto fare arrivare un insieme
di sensazioni e parole che potessero dire che ci sarà tempo
per tutti i progetti che vogliamo fare e che non è per niente
quello che intendevo dire: nella speranza che non dimentichi, perché
io non l’ho fatto. Per niente. A un altro vorrei dire che alle
chiacchiere mentre rincorrevamo il cane ignaro del pericolo delle
auto, mi piacerebbe tanto seguissero dei fatti perché mi piace
e mi piace la sua compagnia. Con l’altra avrei voluto percorrere le
strade di Barcellona dove no hay miliziano que tiene miedo. Si
sta in silenzio, merce rara e di qualità.
Pensieri,
difficili da recapitare, specie per chi non è dotato di
telepatia.

E
ancora: sonno, sveglia random, fiume: freddo e chiaro.

Si
pulisce, si lavano i piatti, si aggiusta, si va a fare una
passeggiata. Lì vicino c’è un giardino botanico che
sembra molto bello. Fa freddo, torniamo indietro e cominciamo a
preparare il fuoco. Durante la giornata dovremmo fare una specie di
workshop, devo mostrare altri video (le azioni di San Precario) e
discutere un po’ di cosa si potrebbe fare in Cina. Si comincia alle
cinque. Nel frattempo giro all’interno del posto. M. mi ha detto che
il giorno dopo un concerto sono arrivati i poliziotti. E gli hanno
chiesto: siete un gruppo religioso? No, gli ha risposto
M. Cosa significa la parola “autonomo”, gli aveva allora
chiesto il poliziotto, sventolandogli un flyer in cui c’era scritto
“Autonomous Center”. M. gli ha spiegato il concetto di do it
yourself
e il poliziotto, non avendo capito un cazzo, ha detto,
va bene, no problem, ciao.

Ovviamente
per i ragazzi che gestiscono il posto ha significato credere di avere
un margine di agibilità. E quindi hanno continuato e anzi,
proprio mentre eravamo lì, sono arrivati altri e nuovi flyers,
adesivi, ecc. Roba da attachinaggio…Finalmente sono arrivate
un po’ di persone: due pischelle che erano state allo speech
all’università, un altro paio di tipe e qualche ragazzo. Uno
di loro accompagnava la fidanzata e ha giocato tutto il tempo con una
specie di cubo di Rubik, ma diverso. Non ho capito bene cosa fosse.
Questo tipo, che sembrava farsi i cazzi suoi completamente, anche
durante la proiezioni del video a un certo punto ha attaccato a
parlare e non la finiva più. Ha descritto le condizioni del
proprio lavoro, il ricatto lavorativo dato dalla grande quantità
di persone in Cina, ritmi di lavoro, pressioni, spese, insomma una
merda. Allora gli ho chiesto, in che campo lavori? E lui: eh
no il nome della società non te lo dico
. Gli ho chiarito
che volevo sapere il settore: marketing, mi ha risposto.
Insomma c’erano anche altri designer, per altro. Trovo un botto di
designer in Cina. Stai a vedere che innovano, penso.

Poi
chiedo: vabbè ma cosa è che non vi piace. Risposta
all’unisono: non ci piace l’insicurezza della nostra vita. Per
un attimo il discorso sembra arrivare a livelli che non mi aspettavo,
poi invece si va via via sui temi dell’esperienza e del confronto e
quel pensiero di autodeterminazione appena accennato svanisce. Si parla di viaggi, necessità di confrontarsi e volontà di esplorare le cose a fondo.
Cominciano a parlare in cinese, fitto fitto. Si confrontano, molti
non si erano mai visti prima. Mi colpisce: che quando uno parla
stanno tutti zitti. Solo quando ha finito si risponde. E anche
questo: che qui in Cina potremmo dire che il pre- politico è
già politico. E mi viene in mente questo: futuro e
novecento.

La
Cina sembra essere il futuro, per molti versi, eppure vive ancora in
un involucro politico e sociale novecentesco, con le classiche
aggiunte anticherrime cinesi. Un mix di epoche e stati d’animo che
cercano una sintesi nel nome dell’armonia, in sede istituzionale, nel
nome del confronto, in altre sedi. Il pre politico cinese mi ha
shockato, e mi è venuto in mente Jullien, il grecista, quando
dice che i cinesi, più ancora degli occidentali, strozzano
ogni idealismo sociale, all’interno della categoria della politica,
intesa come rapporto di forza.

E
allora credo che questo livello pre-politico, trasudante
consapevolezza dei rapporti di forza, sia oltremodo interessante.

Si
continua fino a tardi poi si mangia insieme. Qualcuno va a dormire,
comprese le due ragazzette. L’indomani andranno via molto presto:
hanno un esame, fanno filosofia.

Notte, altro giorno di pulizie, cose da fare, si
mangia e si va alla stazione. Fantasmagorica e immensa, strapiena di
gente, tuta in fila e concitata, per andare a morire nelle cuccette.

Quando arriviamo a Pechino, alla stazione Ovest, lo schiaffo che arriva dal vento gelido e
pungente come le frecce del film Hero, è più forte che
in un altro giorno qualsiasi. L’odore del fuoco e un po’ di sporcizia
inietta immediata malinconia. Ho la sensazione di doverci tornare, a
Wuhan. E forse, sull’autobus che ci riporta a casa, lo stiamo pensando tutt*.

Mille
anni al mondo mille ancora
che bell’inganno sei anima mia
e
che grande questo tempo che solitudine
che bella compagnia

Posted in Pizi Wenxue.