Skip to content


Out of myself

Avrei
bisogno di storie, risposte fulminanti e sguardi accesi. Invece mi
ritrovo a camminare come un disertore per le strade di Pechino. C’è
anche chi – sorseggiando un animale o un sospiro tra le mani –
non parla e non guarda, neanche saluta se proprio vogliamo andare al
fondo di ogni cosa, riponendo nell’anfratto più infimo dei
propri sentimenti, anche una traccia seppur minima di nostalgia. Sono
i tempi che sono e sinceramente ne ho pieni i coglioni e mi perdonino
le amiche.

Mi
sono rigirato tra le mani per delle ore centinaia di dvd e di cd,
senza saperne scegliere uno. Mi sembrava di essere circondato da
un’umanità, con il nome schietto e preciso di Joncour, quello
che la vita la guarda, come si guarda assorti, una giornata di
pioggia. Lieve e silenziosa. E poi come ti muovi la merda danzante
del mondo si coagula ai tuoi piedi. Se non torni, morirò. Sai che non è vero, ma dirlo mi libera da tormenti e alla fine il mio piloro ne giova. A scanso di equivoci: stai tornando e io non muoio, anzi. Sento quella sensazione da marte in ariete o quel che è: forza, equilibrio e coraggiosa inadeguatezza.

Ho
voglia di storie come quelle di chi partiva e tornava e quando gli
dicevano: com’è la fine del mondo, rispondeva: lontana. Ho
pensato molto a questo posto, ho sempre apprezzato il lieve e
inesauribile rumore del cervello che intuisce qualcosa, salvo
sprofondare in un acquitrino di incomprensione. Ricevere una lettera
e delle foto è un piacere nuovo e mai abbastanza consolidato.
Si piazza lì tra gola e stomaco, non va ne su né giù:
come la sbrisolona.

E
prendiamola tra le braccia, questa vita danzante, lo cantavo, mentre
alla ricerca di segnali comuni, mi rifugiavo in un cesso pubblico
assaporando l’odore umano della socialità, guardando un tipo
cagare accanto a me, più interessato a percepire le mie
dimensioni di saggezza occidentale, che non al giornale e al
cellulare con cui si stava destreggiando nell’arte equilibristica di
sfoderare le viscere a piacere. Poi tornando indietro, giusto per dire: sono tornato, beviamo una cosa sentiamo una canzone e poi vado, guarda un po’, mi hanno chiesto: hey you! There’s a ticket! E allora: devi veramente andare affanculo, ma proprio ti ci devi strozzare con quel tuo cazzo di ticket, spero sia lungo abbastanza per farti un bel nodo e sprofondare nel buco più buio del mondo, perché non stai capendo. Non c’è spazio per la pietà, si tratta di tirare su alcune pietre, alcuni legni. Come fare una boccia ormai lo trovi anche su google, del resto e sono sicuro che c’è anche in cinese.

Poi
c’è anche la malinconia del futuro e la riflessione su quanto
tutto sia, o meno, abbastanza. Chiacchiere, parole, ubriachezze. La
vita spesa davanti al portone in via della pergola, il piacere dei discorsi e quella sensazione inappuntabile: abbiamo ragione. O Pablo scampato all’omino in blu che giunto
sulla porta si blocca. Dove stai andando?O il fattone che urla: fascisti! E i bongos bruciati ai margini della strada, il cui fumo ci riempiva gli occhi di mascara improvvisato e alla fine: ne è valsa la pena, siamo quelle cose lì. Che poi tutto finisce e uno si mette a rapinare le droherie di una volta, quelle che lasciavano la porta aperta davanti alla primavera. Per dire della terapia collettiva: ci saremmo salvati, almeno.

Avrei
bisogno di una storia che mi mettesse in fila fegato e polmoni,
guerra lampo e fantasia, in un ordine ascendente verso che so, i
dischi di Bowie, mescolando domande a inusuali risposte, senza
trovarmi alla ricerca di una faccia da fare, quando la questione è:
ti piacerebbe vedere un esercito nudo a passeggiare per le vie di Pechino. Ti piacerebbe?
E poi: ma che ti frega dell’Italia! E poi: ma cos’è l’Italia? E poi: forse hai bisogno di affetto, perché non me lo dici? Ti affitto un abbraccio, ti subappalto un bacio, ti posso addirittura comprare una scopata on line. Per capire quanto si è generosi di questi tempi.

E
in tutto questo bell’andare, tra un bicchiere di neve e un caffè
come si deve
, ho una sensazione che trova un rifugio certo,
caldo, scuro e impercettibile: un’irata sensazione di peggioramento,
di cui non so parlare e non so fare domande, ho un’irata sensazione
di peggioramento, di cui non so parlare e non so fare domande, ho
un’irata sensazione di peggioramento, di cui non so parlare e non so
fare domande…

 

Posted in Pizi Wenxue.


3 Responses

Stay in touch with the conversation, subscribe to the RSS feed for comments on this post.

  1. tro says

    Simone, è tanto che non vengo su no blog, ma quando scrivi così io ti amo (in tutti i sensi)
    abbi cura di te, e di chi è con te 🙂

  2. b. says

    hola mosquit!!

    no dai ma in alcuni post uno mette anche qualcosa che travalica il suo stato d’animo. in questo ci sono almeno tre o quattro persone diverse che ho trasfigurato nei miei pensieri, permettendomi di immaginarmi alcuni ei loro stati d’animo. e mi pareva fosse una buona narrazione, partendo dal mio, quello sì, bisogno di storie.

    qui è capodanno, si sta bene, tra i botti e il cervello a guardare su, verso le stelle!

    un abbraccio
    b.

  3. mosq says

    potrei dirti che sono le citazioni che scegli a tirarti giù il morale… ma il tuo morale è giù? e io che ne so? chi sono per dirlo? allora facciamo così, non dico un cazzo e tutto fila liscio, no?!
    ma poi le storie si costruiscono, te lo devo ricordare proprio io a te? tu che mastichi narrazioni come io cattivo portoghese? ..eddai! certo costruire storie può essere faticoso, molto faticoso, più spesso è l’impegno psicologico di cominciare che taglia le gambe. giusto ieri ho letto una poesia di carver che parla proprio di questo…
    poi ci sono le storie da vivere, le storie che si vivono, le piccole grandi narrazioni…

    ciao,
    m.