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La Stella del Mattino, in China

Saper
leggere il libro del mondo
con parole cangianti e nessuna
scrittura
nei sentieri costretti in un palmo di mano
i
segreti che fanno paura

Tenue
luce
e coraggio duraturo. Ogni libro lascia immagini e ricordi.
Io quando l’ho posato per terra, non ho comodini, ho sognato Lewis
nel buio a sussurrare, o forse gridare. Traditore, pederasta.
Ho visto la stanza dove T.E. incontra Michael Collins, in una
premonizione di come la storia riservi destini che ogni uomo
vorrebbe cambiare, modificare. Destini dai quali uscire e rientrare o quanto meno scriverne di proprio pugno le fasi, le scuse, le accuse, spiegazioni. Mi sono
svegliato. Faceva un caldo boia, ma ho sentito gli odori dei tetti, di stanze, strade e del negozio, pianti di
bambini, disorientamento allucinato e ho provato a immaginare occhi
neri e mani appoggiate su un cadavere. L’aria condizionata mi ha dato
sensazioni fredde e umide, che mi hanno consigliato lacrime
liberatorie. Invece. Ho dormito di nuovo e mi sono svegliato ancora,
alla luce di un’alba acida cinese e ho pensato che quel vuoto,
apparente, che maschera il periodo tra la prima guerra e il resto,
assomiglia – fatte le debite e storiche proporzioni – allo stesso vuoto provato dopo il 2001. Come dire, dopo
Genova (dopo una guerra) non si è più gli stessi. Ci si
vede in specchi deformati e ci si chiede: sono io, siamo noi, quelli?
Eppure, bisogna farci i conti, ricordare come si era e come si è.
Dettagliare i ricordi, per poi trovare il pertugio grazie al quale
inclinare la storia e provarla a piegare ai propri sogni. Destino di
uomini e donne.

Come
leggere i fatti, come rimanere in piedi, come tornare a quella
lucidità che sembrava di avere o non avere, come andare
avanti. Mi sono fatto spedire Stella del Mattino di Wu Ming 4
a Shanghai. Prima di riceverlo ho letto tanti commenti, tante
recensioni sul libro. Perché si incrociavano con quella
discussione sulla Nuova Epica Italiana che pareva averci ridestato (a
me e all’altro socio) da un torpore, legato a doppio filo con domande
e sentimenti sull’utilità delle cose, la purezza o il
tradimento di certi percorsi. E quella cazzo di Genova sempre lì
a dirci: io sono qua, e voi?

Allora
ho letto Stella Del Mattino provando a fare il vuoto delle
tante (alcune decisamente dotte) recensioni. Ho provato a leggerlo
come non sapessi chi fossero i personaggi, come non sapessi niente
della storia e delle sue traiettorie languide e terribili. D’altronde
mi basta guardare fuori dalla finestra, vedere come il nostro mondo
sia interpretato, riletto e vissuto dai cinesi, per fare il vuoto e
dimenticare. Farmi ammaliare e ridestarmi. Ho provato a essere amico di T.E. a sospettare di lui, ho provato a disegnarlo nella mente, a immaginarne il corpo, i sentimenti. Ho dubitato di lui e mi ha convinto. Ho creduto e l’ho ripudiato. E alla fine ne sono uscito diverso. Non per lui. Quanto piuttosto per quel fluire della storia tutta da leggere, immaginare e creare. Quella storia che invita a farne parte, a prenderne e prendere parte.

Come
direbbe un mio conterraneo, mi fossi guardato durante la lettura, mi
sarei visto che ridevo, mi sarei visto di spalle che partivo.
Perché il sentimento durante la lettura era quello di un
placido trasporto tra i rivoli della storia, la sua interpretazione,
il suo superamento, l’incredibile meraviglia circa il senso di
straniamento, possesso e volontà. E perché quella
storia così a zig zag, forse, come dicono qui in Cina solo per
rendere difficile una interpretazione degli spiriti maligni, mi
pareva assumesse quell’immagine di cerchio in cui tutto è
contemplato e possibile. La verità (quale) e il suo contrario.
Il mito e la sua menzogna. E l’importanza di scriverne, dotarsi di
strumenti, visioni del mondo e accortezze. Quindi sorridevo, perché
l’anima era in pace. E avrei voluto partire e ricominciare il libro,
trovare altre chiavi di lettura, riposarlo e rileggerlo ancora.
Perché poi si tratta di smuovere animacce scure e anche mani e
piedi e parole, perché colmare il post guerra, il post Genova,
accudendo ricordi e sfornando uscite, è un compito arduo,
duro, sfiancante, ma va fatto. Il ritorno è memoria, si è
detto. Per me Stella del Mattino è mettere la faccia, la mia,
dei miei compagni e di tutti quanto abbiamo imbarcato in questi anni,
di fronte allo specchio, e ripartire. Come fosse possibile guardarsi
indietro e andare avanti, dare nuove parole alle cose vecchie.
Immaginare nuove parole per quelle nuove.

Per
un guado una terra una nuvola un canto
Un diamante nascosto nel
pane
Per un solo dolcissimo umore del sangue
Per la stessa
ragione del viaggio viaggiare.

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[China] Ristoranti chic a Shanghai

Xinhua Lu – Dingxi Lu

Il
capo

 

Il
capo, la capa e la cucina

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[China Punk] Demerit

Demerit
tutta la vita.

Al Logo Bar a Shang Hai…

 

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[Shanghai] SIFF: Mongolia, Grecia e Germania

E’
partita domenica l’undicesima edizione del festival cinematografico
di Shanghai. Giuria presieduta niente meno che da Wong Kar Wai.
Proprio del regista nato a Shanghai e vissuto a Hong Kong sarà
presentato un’edizione rinnovata (e rimontata) di Dong Xie Xi Du (Ashes of
Time, 1994) questo sabato. 16
film in competizione per il Jin Jue. Di quelli in lizza ne ho visti
due, il terzo è fuori concorso.

Il
primo è uno dei due cinesi in gara, Urtin Duu, di
Hasichaolu. Urtin
Duu, letteralmente significa lunga canzone, nella lingua
mongola. E’ un canto lungo, privo di ritornello, melodioso e
possente. La storia del film è quella di un ritorno tra le
lande della Mongolia più profonda, di una cantante che da
Pechino torna nella propria terra, dopo aver perso il marito e la sua straordinaria voce. Colori
sgargianti, paesaggi fantastici, una regia sicura e spigliata,
interpretazioni di facce rugose, solcate da clima, intemperie, drammi e
costumi e abitudini tradizionali.

Il
tema del ritorno è caro alle popolazioni che vantano
tradizioni e retaggi storici di battaglie e di grandi nomi: Gengis
Khan riecheggia negli Urtin Duu ascoltati nel film e addirittura si
sovrappone, in termini di immagini, ad una cavalcata che costituisce
uno dei momenti topici del film. I cinesi in sala – la cui maggior parte mi pare andare al cinema solo per ridere, visto il poco gradimento per film duri e drammatici – mi sono parsi realmente assorti e
rapiti dai paesaggi, dal chiarore della neve e dal buio di quelle
notti, dalla mirabilia di un tramonto che si specchia in un esercito
di cammelli, in grado di muoversi e agire solo se in ascolto di
quelle melodie aspre e strazianti. Applausi finali e ovazione per
l’anziana protagonista in abiti tradizionali, fiori in mano e
presente durante la proiezione.

Ieri
invece era stata la volta di un film greco (Women conspiracies
di Vassiliss Vafeas) che, seppure fossi ben predisposto a livello
umano, mi ha a tratti irritato, quasi come il calcio della loro
nazionale. Poi in certi momenti mi ha dondolato, salvo, un istante dopo, riportarmi in uno stato di incazzatura. Un
guazzabuglio onirico (le parti migliori) e vagamente simbolico, ricco di dialoghi non
sense e un gusto della sorpresa che ripetuto all’infinito mi ha creato un senso di confusione letale. Ai cinesi non è
piaciuto e neanche a me. Forse non c’era niente da capire, ma solo
apprezzare la fotografia del film: la Grecia regala angoli fantastici
e l’isola nella quale si svolge parte del film costituisce un buon
viatico alla memoria – così piccina di fronte a uno schermo –
della vecchia Europa.

Infine
un film tedesco non in gara, Counterparts di Jan Bonny. Già
presentato nel 2007 in vari festival europei (a Roma era nella
sezione “Rivelazione Europea”) è giunto a Shanghai con tanto di giovane regista presente in sala. Violenza domestica e repressione
comunicativa nei rapporti umani: tra una coppia, i figli, i genitori e l’ambiente di lavoro (il protagonista fa il poliziotto…) Un film duro, che disegna
traiettorie sinistre nel nostro vivere quotidiano. Non l’ideale per
poi uscire e fare finta di niente.

 

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[China] EnigMao

Non
è che tutte le scoregge dei sovietici siano profumate
.
Come dargli torto?

La
retorica di Mao, fatta di metafore contadine e di un linguaggio che
nel privato e negli appunti, accanto ai documenti da approvare si
esprimeva per metafore aventi come protagonisti, la merda dei cani
(ci vuole un po’ di comunismo nel mondo,
altrimenti l’uomo sarebbe come un cane che mangia la sua merda
),
le stronzate, scoregge, aneddoti e retoriche campestri, indica un animo contadino alle prese con la
storia. Un mito che ha costruito la sua immagine attraverso
esperimenti, giustificando gli errori con una visione dialettica
della storia (le famose contraddizioni), un uomo alle prese con la
nazione più popolosa del mondo, uscita dal conflitto con i giapponesi e da una sanguinosa guerra civile e la difficoltà di
gestire inghippi di potere e relazioni umane tutt’altro che semplici.

Short
nella sua biografia del Timoniere (Mao, a life), secondo me la
migliore in assoluto, tenta un esperimento non da poco: inserire un
uomo così immaginifico all’interno di 80 anni di storia
cinese, cercando di smussarne il protagonismo in una biografia più
corale che individuale. Specie nella prima parte, durante la quale la
figura di Mao è seduta ai piedi della storia: la osserva, si
defila, si integra e si defila ancora. Caratteristiche salienti anche
del suo successivo Impero e che tratteggiano gli infiniti elementi,
le combinazioni, le casualità che portano l’ingegno di un uomo
a primeggiare sugli altri.

Uomo
di guerra, uomo incapace di gestire la pace. E la storia, nei momenti di difficoltà, in alcuni casi gli è andata incontro: conflitto coreano, dissidi con i sovietici. Quando invece gli eventi non gli hanno fornito soluzioni plausibili, si è inventato crociate e guerre (la rivoluzione culturale) sulle quali le sue contraddizioni si sono innervate procurando danni ingenti, morti e crisi sociali sulle quali l’animo cinese pare indagare ancora oggi. Mao si è
ritrovato senza neanche sapere come (lui disse grazie ai giapponesi e
forse non tutti gli storici possono dargli torto), alla guida di un
paese da amministrare, senza avere idea sul da farsi, cercando di capire il modo, costruendo allo stesso tempo il suo mito e la sua storia tutt’altro che lineare.

Senza
avere mai viaggiato all’estero, ma rinnegando il passato cinese, senza avere mai
chiesto consigli, ma alla ricerca di indizi nel vituperato mondo
classico cinese. Si diceva di contraddizioni: il libro di Short è
un zig zag storico, ricco di documenti e assente di semplicismi e
giudizi facili facili. Un cerchio, anziché una linea retta, in cui i concetti cardini della filosofia cinese, che lo si voglia o no, non hanno mai smesso di padroneggiare, seppure sminuiti in un Mao Ze Dong pensiero, fatto di marxismo e favole, leninismo e Cina, confusione e ira.

Come
si costruisce un mito in Cina? La storia di Mao fornisce una chiave
di lettura e Short ne descrive i passaggi salienti, tra originalità
filosofica e pratica tutta contadina. Mao, che si voglia o no, anche
nel momento in cui è salito sul piedistallo più alto
della storia cinese, è stato un alchimista burbero, immaturo,
viziato da se stesso e i suoi cortigiani, ma anche fine stratega e
grande analizzatore dei comportamenti cinesi: attraverso la sua
epopea, i suoi errori macroscopici, i suoi successi e le sue guerre
interne al Partito (minacciando addirittura, a 70 anni, di ritornare
a fare la guerriglia contro lo stesso partito comunista) Short
fornisce chiavi di lettura oltremodo contemporanee. Anche perché
su Mao, il giudizio storico, è tutt’altro che concluso.

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[China] Server dei Server

Riprendo
da shanghaiist…:-/

It’s
finally happened:
Anonymouse.org,
the proxy service that many of us use to access blocked websites and
surf the Internet anonymously, has been blocked by Net Nanny.
Shanghaiist first noted it at 10:30PM last night Shanghai time, along
with the block of
ComedyCentral.com.
While the decision to block Anonymouse is self-evident (okay, sort
of), we’re not completely sure why ComedyCentral got the axe. In the
mean time, Shanghaiist suggests using alternative proxy services
ProxyChina
or
Hack520.

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[Hu] Vie, strade, Concessioni

Dopo
le vie di Genova, associate al G8 e ai luoghi di quei giorni, pure a
Shanghai (chiamata brevemente Hu dai cinesi) mi piace cercare
l’origine dei luoghi, dei nomi e delle cose. E mi perdo a camminare.
Si direbbe che quasi non faccio altro. Forse perché le strade
nascondono segreti ad ogni svolta, forse perché solo
camminando si respira l’aria di una città, o almeno credo. O forse perché Shanghai (nelle due foto due starlette degli anni 30, questa a sinistra, del cinema, quella in basso a destra, delle pubblicità di sigarette) ha un fascino che va catturato, non senza dovere spendere un po’ di fatica. Una città che ricorda Milano, per i suoi chiaro scuri e per essere decadente e nonostante questo, ancora al centro dei trend comunicativi e finanziari del paese. Una bellezza, se si ritiene di trovarla, che richiede la massima empatia, un umore disposto a variare con sole e tramonto e tanta strada negli scarponi.

La
mia parte preferita di Shanghai è quella che viene definita
Concessione Francese:
un po’ perché abito nella via che si gongola sulle sue piccole
spalli occidentali, un po’ perché è la parte della
città che più echeggia quel miscuglio architettonico e
spirituale tra Oriente ed Europa, di cui Shanghai ha saputo farsi
protagonista nella sua vita sociale e politica.

Un
punto di non ritorno nella storia cinese e degli insediamenti europei
in Cina è il trattato di Nanchino del 1842, a seguito
della prima guerra dell’oppio. Quel trattato (e quelli che seguirono,
definiti non a caso, “ineguali”) oltre a mettere in ginocchio i
Manchu (la dinastia, ultima, dei Qing, quelli dei codini e della
regnante Cixi, tanto per intenderci) e a rintronare il popolo cinese,
stabilì anche l’apertura riconosciuta di alcuni porti alle
navi occidentali. Fino a quel momento i mercanti inglesi, scozzesi e
francesi, per dirne tre, se ne stavano leggermente al largo,
aspettando i mercanti cinesi, banditi, farabutti e faccendieri, per
scaricare sulle loro barchette l’oppio e ricevere nelle proprie the,
spezie, seta.

Con
la guerra si aprono i mercati. La Cina ne risentì, sia
economicamente, sia in termini sociali. E in quel caso i porti, tra i
quali quello di Shanghai, fino a quel momento cittadina un po’ spenta
e piccola, sovrastata dall’appena meridionale Ningbo, più
attiva e viva, diventarono centri propulsivi dei due Imperi: quello
cinese e quello occidentale. Così Shanghai prese ad animarsi di vite e di ogni
residuo umano che giungeva dai posti vicini per procacciarsi, in ogni
modo e con ogni strumento, di che vivere.

L’apertura
del porto trasformò Shanghai, via via, in una metropoli
dell’epoca, facendola diventare quello che oggi viene ricordata come
una città nella quale convivevano ricchi e ricche e
delinquenti di ogni risma. Una città dai colori e contorni
aspri, nel cui luccichio moderno, maestoso e apparente si
nascondevano giri e affari di ogni genere. La città nella
quale, in un parco, era esposto il cartello: vietato l’ingresso ai
cani e ai cinesi.

Nell’aprile
del 1849 nasce la Concessione francese, crocevia storico di
Shanghai e della Cina. Furono i francesi a stroncare la ribellione di
Shanghai (contro Impero e contro gli stranieri) del 1855, furono i
francesi a spingere per la seconda guerra dell’oppio. E ancora, fu
nella concessione francese che nel 1921 nacque il Partito
Comunista
Cinese (dove oggi sorge Xintiandi, la via
degli antichi shikumen dove sollazzano stranieri nelle notti
shanghaiesi), mentre ricche signore passeggiavano tra i viali di Hua
Hai Lu
(prima intitolata al maresciallo Joffre) e le sue piccole
boutique alla moda.

Shanghai
divenne per un secolo il centro più importante della Cina non
solo economicamente ma anche politicamente (oltre che per la moda e i
gusti dell’epoca, vedi il film Blood Brothers, ambientato
nella Shanghai degli anni Trenta, ma anche le opere di Anchee Min e
tanti altre naturalmente). La dirigenza del partito comunista, con un
Mao ancora relegato nelle montagne a studiare la guerra e la via
cinese al marxismo, dettava i tempi della propria vita illegale prima
e della propria ricerca di successo poi da Shanghai, prima di
ricompattare il paese e definire come capitale del paese Pechino
(dove tirarono giù alberi e tutto quanto sorgeva in Tien An
Men per celebrare le adunate di massa: a questo proposito ho visto
con interesse il documentario di Antonioni del 1972 sulla
Cina, in piena epoca di Rivoluzione Culturale, uno dei periodo bui e
che costituisce l’oggetto di indagine della maggior parte della
produzione letteraria cinese contemporanea. I testi del film sono di
Andrea Barbato. Mica poco. C’è anche una parte su Shanghai che
confermerebbe un antico andazzo che recita più o meno così:
se vuoi vedere quanti sono i cinesi, fai un giro a Shanghai.
Credo sia vero).

Oggi,
Hua Hai Lu è ancora una via lunga interminabili chilometri e
ospita migliaia di negozi e di grande firme. Nella parte più
in sorge anche l’ambasciata americana, riconoscibile dai muri
grigi e dalle guardie sempre presenti. Più in generale in
tutta la concessione esistono alberghi sontuosi, all’interno di
giardini magnificenti, in un clima tra il decadente e lo storico che
vanno a colorare l’umore dei suoi passanti. La fama da via dello
shopping di Hua Hai Lu, però è stata nel tempo
soverchiata da Nanjing Lu. Oggi
la via più occidentale dell’antica Shanghai è
considerata il centro degli acquisti della classe medio bassa cinese.

Eppure,
a ridosso della via, si articolano tutti quei vialetti e quelle
strade che nascondono antri bui e poco illuminati, piccoli parchi e
alberi a cadere sui passanti, come se non esistesse, a pochi metri,
quel brulicare di acquisti e vendite. Viuzze dove si può
trovare tofu puzzolente (si chiama così eh), pizzette di
Shanghai o le frittelle che rinfrancano e aiutano i chilometri
successivi da percorrere. E poi c’è Heng Shangh Lu, un
universo che sarebbe bellissimo, se non fosse anche il centro dei
pub, uno dei tanti, di Shanghai.

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[China] Veglie e ricordi

Per
alcuni dei miei amici, i fatti di Tien An Men del 1989 sono davvero semplici da
spiegare, capire e interpretare: un gruppo di leader, mossi dagli indipendentisti di Taiwan
e pagati dagli Usa, hanno gabbato centinaia di fratelli e sorelle
cinesi, portandoli al massacro.

Sarà stato anche un atto
violento e tremendo, ma ritengono che la repressione fosse l’unico
strumento adatto a garantire l’unità e la sopravvivenza della Cina.
Altrimenti, mi hanno detto, avremmo fatto la fine dell’Urss. Punto.

A Wuxi un ragazzo di vent’anni, invece, mi aveva detto: Deng fu terribile. Mao non avrebbe mai mandato i soldati contro il suo popolo.

Nel frattempo, come
ogni anno, il 4 giugno, a Hong Kong si è fatta la veglia per
ricordare le vittime (un centinaio per i cinesi, migliaia per
l’Occidente) del 1989 a Pechino. Quest’anno, per la prima volta, la
CCTV ha mostrato le immagini. Fornendo però la sua versione:
la veglia sarebbe stata per le vittime del terremoto e la televisione pubblica, pur mostrando le foto, non ha fatto il minimo accenno ai reali motivi della veglia.

Tutto ciò mentre, in tema di politica interna, la situazione sembra volgere
ancora una volta al torvo: si parla di movimenti di truppe cinesi verso il
Tibet (ma potrebbe essere una cautela in vista del passaggio della fiaccola della sfiga da quelle parti il 18 giugno), mentre alcuni siti riportano di un nuovo attacco terroristico
uiguro nello XinJang.

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[China] Le facce delle monete

Dopo
le feste che tornano alla tradizione, perché si chiedono alcuni, nei soldi cinesi
(da uno a cento yuan) deve esserci solo il volto del Timoniere? Oltre
a notare come questi tentativi di re- impossessamento delle origini
sia una sorta di leit motiv nella storia cinese, in questi giorni
resi leggeri dal consueto silenzio su Tien An Men (la ricorrenza era
il 4 giugno) e dall’ottimismo (per certi versi già rientrato)
sulle aperture del Governo in tema mediatico riscontrate durante il
terremoto del Sichuan, un gruppo di accademici liberali cinesi ha
fatto partire una petizione per chiedere al Governo di piazzare in qualche RMB (o yuan, o
kuai come dicono qui) proprio lui, il poeta e patriota Qu
Yuan
, nei giorni della festa che implicitamente lo celebra.

Già
tempo fa nella banconota, poi scomparsa, di 2 cents (jiao), comparivano
ritratti di persone appartenenti alle minoranze etniche (nella foto). Poi si era tentato di
piazzare il padre della Patria, Sun Yat Sen, infine l’eroe
contemporaneo Deng Xiao Ping, il piccolo uomo che tra il lusco e il
brusco aveva aperto la Cina ai mercati e asfaltato la rivolta di Tien
An Men.

L’aspetto
interessante sta nelle ragioni secondo le quali, per gli accademici che
hanno proposto la cosa
, sarebbe corretto cambiare e mettere Qu Yuan:
innanzitutto perché rappresenterebbe l’odio del popolo cinese
contro i tiranni, in secondo luogo perché Qu Yuan, più
che un patriota fu uno che lottò per la libertà, infine
perché la storia cinese, dicono, non è solo fatta di
periodi bui (impero) e periodi gai (comunismo) come il Partito ha
insegnato fin nelle scuole. Insomma per loro Qu Yuan è
liberale. 

Ho chiesto ai miei amici cosa ne pensassero. Risposta:
“è impossibile.” Perché? “Eh chiedilo a Mister
Mao…o a Mister Hu Jintao”

Quello
che però sorprende è come questo appello, che non sarà
certamente recepito dal Governo e gli autori lo sanno, giri in modo
molto ampio nella rete con riferimenti decisamente espliciti alla
lettura storica a senso unico offerta dal Partito, senza uso di metafore particolarmente complicate. Ed è un
segnale di quello che noi chiamiamo nazionalismo, che non permea solo
il Governo e il popolo che gira con le magliette I Love China, ma anche quegli strati sociali che più spingono
per aperture democratiche.

Ma
se Mao è ormai reliquia storica su soldi, accendini e orologi e
può essere sottoposto a critica in modo tranquillo, il suo
metodo e la basi che egli pose sul comunismo alla cinese sono
talmente ancora forti che, anche se negate ufficialmente, non possono
essere certo dimenticate nella pratica. Come dire, questo appello dei
liberali è una nuova sorta di contraddizione in seno al popolo. E
come tale, e purché rimanga tale, può essere tollerata.

 

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[China] Lo scopo del blog

 
Dopo
tanto peregrinare, tra libri, film, racconti e strippi, ho capito,
finalmente perché e come tenere e fare vivere questo blog cinese.

Oggi
mentre facevo una spesa piuttosto rapida in uno dei supermercati di
Shanghai, mi sono messo ad osservare le persone. I cinesi che
comprano. Nel supermercato dove sono andato c’è anche un antro
nel quale ci sono i prodotti importati. Ero da solo. L’ho notato
perché nella mia testa stavo pensando ad alcune cose (anche
per questo ho fatto cadere due volte le uova. Fortuna non si sono
rotte. Ma tornando a casa ero ancora assorto e stavolta sono cadute e
si sono rotte. Incredibile la difficoltà a pulire il rosso
d’uovo sul pavimento).

A
conquistarsi la mia concentrazione era da un lato il già noto
discorso sull’epica e i miti come possibilità di attaccare
culturalmente il panorama sociale italiano (ma potrei dire europeo),
dall’altra, anche a seguito di uno scambio di mail su talune
riflessioni, pensavo a cosa c’è prima della risposta (ovvero
l’attacco culturale). E la crisi culturale, ancora prima che
economica eccetera, è un dato di fatto e non solo italiano. Da
noi semplicemente è il primo botto europeo, perché
siamo gli ultimi a livello economico.

Quindi,
stavo anche pensando a come raccontare la Cina per provare a
rispondere a entrambe le questioni. Da un lato, ovvero, riscontrare
quello che qui c’è e non c’è più da noi,
dall’altro usare la Cina, per raccontare l’Italia. Allora oggi
guardavo i cinesi che compravano i loro prodotti. Guardavo i cinesi
tutti allegri e contenti sfasciare dumpling agli angoli della strada.
E guardavo me, affannoso nelle camminate, in difficoltà a
comunicare, quasi timoroso di interrompere i cinesi nelle loro
cose. E ho visto la Cina e noi (nessuno
si senta escluso)
.

Da
questo ho dedotto, (aiutato da talune riflessioni, ma anche
dall’ultimo, o meglio dagli ultimi post del mio socio (eccezion fatta
per le sue incursioni calcistiche…), che il nostro imbarbarimento –
enfatizzato dalle recenti squallide novità italiane – è
un sintomo da un lato di una necessità della politica di
garantire le aziende (perché l’attacco ai rom e più in generale la politica fascista di questi tempi, tradotto in politica è quello), dall’altro di un imputridimento culturale non
solo di chi dovrà reagire, noi, ma in generale di tutta
la società europea. E’ un declino generale.

Ovvero
qui, in Cina, c’è una vitalità, pur nelle difficoltà
quotidiane ancora ingessate dai gangli più inutili e stupidi
imposti dal governo, che è difficilmente respirabile dalle nostre parti. Per vitalità intendo: orgoglio, voglia, curiosità e coscienza di sé.

Il
problema, se mai, è che noi chiamiamo il loro orgoglio,
“nazionalismo” e le loro sperimentazioni, “contraddizioni”,
perché non ci rassegnamo ad avere il brevetto sulle
definizioni della storia. Senza sapere che sul problema delle
definizioni, dei nomi delle cose, i cinesi sono arrivati prima di
noi. E’ solo un esempio, per specificare che certi problemi non ce li siamo solo posti noi, nel mondo.

Ma,
allo stesso modo, per non finire solo in una semplice critica della
nostra occidentalizzazione riguardo l’impostazione con cui valutiamo
le diversità, il dato che mi pare più interessante è
che il pericolo Cina per l’Italia, l’Europa e anche gli spenti
USA, non è più solo e soltanto su un livello economico
(e i bassi costi e gli investimenti, ecc.) ma soprattutto su un
livello culturale, sociale, del futuro. I cinesi, ma non solo loro, rischiano, cioè, prima o poi, di
innovare (con tutto quanto ne
può conseguire)
. E lasciarci al palo. E invertire, ancora una volta i mondi.

E
si ritorna al discorso di partenza: in generale chi crea gli
immaginari e su di essi costruisce relazioni e su di esse ricatti
sociali, e su di esso appoggia tutti i vari temi di volta in volta
utili alla gestione della quotidianità: vince. Ora può
essere sia il loro turno, può essere che l’abbiano capito e stiamo lavorando su quello (il Sichuan e il terremoto e il modo con il quale l’estabilishment politico lo ha curato, nei dettagli, altro non è se non un immaginario che ha fatto immediatamente presa e che ridisegnerà molto del modo in cui i cinesi guardano al proprio paese e a noi. E non è un caso che abbia scosso anche commentatori, come mi ha fatto notare qualcuno, che cominciano a dire che ci sono differenze tra dittature e dittature).

Eh già, qui si muovono….A noi, infine, il solito
compito: tenere in vita la fiammella che dimostra che si può andare avanti e che bisognerà imparare anche ad essere spietati. Anche a costo di ripescare nel passato o in un presente che un attimo
dopo è già dimenticato.

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