C’è
la voglia di concentrarsi ancora. Cercare, non farsi più
trovare. E i transiti che annunciano tempesta: decisioni, soluzioni,
scelte. Ciò che non si rinnova, muore. E poi certe cose sono
già state dette, meglio di chiunque altro.
Pioggia
e sole cambiano la faccia alle persone
Fanno il diavolo a quattro
nel cuore e passano e tornano
E non la smettono mai
Sempre e
per sempre tu
Ricordati dovunque sei, se mi cercherai
Sempre e
per sempre dalla stessa parte mi troverai
Ho visto gente andare,
perdersi e tornare e perdersi ancora
E tendere la mano a mani
vuote
E con le stesse scarpe camminare per diverse strade
O con
diverse scarpe su una strada sola
Tu non credere se qualcuno
ti dirà che non sono più lo stesso ormai
Pioggia e
sole abbaiano e mordono ma lasciano, lasciano il tempo che trovano
E
il vero amore può nascondersi, confondersi ma non può
perdersi mai
Sempre e per sempre dalla stessa parte mi
troverai
Sempre e per sempre dalla stessa parte mi troverai
Prima che la mente si schiarisca, di
seguito alcune chicche tratte da intercettazioni dei poliziotti a margine
del processo Diaz e il comunicato di SupportoLegale dopo la sentenza di ieri.
[Intercettazione
di Colucci, ex questore di Genova ai tempi del g8, poi indagato per
falsa testimonianza al processo Diaz. L’ex questore dopo la
deposizione si bulla della sua abilità nell’inventarsi la
nuova versione] «Se
il capo (De
Gennaro ndr)
vuole maggiori ragguagli, gli ho detto… se vuole sapere qualcosa io
sono qua, che devo fare, vengo a Roma?. Poi stamattina m’ha chiamato
il capo. Dice li hai, li hai maltrattati (i
magistrati dell’accusa, ndr)
una cosa del genere, li hai., li hai… gli hai fatto la…, come ha
detto, li hai… e no sbranati,
li hai… va be insomma, una frase ha detto. In senso positivo,
chiaramente. Che era contento eccetera. Ho saputo da Ferri che anche
Caldarozzi e Gratteri sono stati contenti, diciamo, di questa…
Luperi è rimasto contento. D’altra parte è uno scenario
nuovo si è aperto per colpa mia diciamo».
[intercettazione
tra Gratteri, oggi capo dell’anticrimine e Colucci, dopo la stramba
deposizione di Colucci, dopo la quale finì indagato per falsa
testimonianza] «E’
che volevamo farti un saluto con Gilberto (Caldarozzi,
all’epoca vicecapo dello Sco, indagato ndr).
Quando si dicono le cose e si dicono come giustamente e correttamente
le hai dette tu allora è doveroso, diciamo, da parte nostra
insomma rendere omaggio, come posso dire, alle persone per bene.[…]
Ti siamo… vicini e riconoscenti…» Colucci ringrazia e
aggiunge: «Lui (il
pm ndr) secondo me c’ha
preso uno schiaffone da Manganelli (attuale
capo della polizia, ndr).
Ce n’ha preso un altro da me». E Gratteri soddisfatto: «Ma
diciamo anche due».
[Intercettazione
tra Serra, ex prefetto di Roma e Colucci] «Hai
salvato quel maiale schifoso, dice che De Gennaro ti ha ringraziato»
[Intercettazione
di Colucci] «Io
ho scoperto una cosa […] che i processi non si vincono o si perdono
in tribunale, ma si vincono e si perdono fuori dal tribunale…»
[Comunicato SupportoLegale] AMNISTIA
PER LA POLIZIA
Giovedì
13 novembre 2008 si è concluso l’ultimo dei tre grandi
processi di primo grado per gli eventi legati alle proteste contro il
G8 del luglio 2001 a Genova. Il processo a 29 funzionari di polizia
per l’irruzione alla scuola Diaz che terminò con 93 persone
arrestate illegalmente e 61 di queste ferite gravemente si è
concluso con una sentenza esemplare: sedici assoluzioni e
tredici condanne.
Il tribunale ha deciso di condannare
solo gli operativi e di assolvere a pieno titolo chi ha pianificato
un’operazione vendicativa e meschina. Di assolvere le menti che
per giustificare una carneficina hanno deciso di piazzare due bombe
molotov recuperate nel pomeriggio tra gli oggetti rinvenuti, di
mentire circa l’accoltellamento di un agente, di coprirsi l’uno con
l’altro raccontando incredibili resistenze da parte degli occupanti
della scuola e saccheggiando il Media Center che vi si trovava di
fronte. La ciliegina sulla torta del presidente Barone e delle sue
due giudici a latere Maggio e Deloprete: alle vittime di
quella notte va qualche spicciolo, tanto perché nessuno
si lamenti di essere stato tagliato fuori da una immaginaria torta.
Alla
lettura della sentenza nessuno di noi si è meravigliato. Non
siamo delusi, non siamo tristi, né pensiamo alcuno dovrebbe
esserlo. Siamo solo furiosi.
Non
abbiamo mai creduto che la giustizia fosse veramente "uguale per
tutti", non abbiamo mai creduto che chi esercita il potere
avrebbe ammesso di essere giudicato, di essere messo in discussione.
Ma il dileggio con cui è stata confezionata questa sentenza
parla da sé: l’amnistia per la polizia è la
seconda parte di quell’operazione vendicativa e meschina che ha
portato alla Diaz. E’ il secondo tempo della vendetta per
la frustrazione e il terrore che lo Stato e i suoi apparati hanno
provato in quei giorni di rivolta. Non ce l’hanno mai perdonata e non
ce la perdoneranno. La sentenza che chiude questo ciclo di processi
di primo grado dovrebbe essere una lezione di storia, e forse
grazie ad essa restituiremo la dignità a una vicenda che ne ha
avuta molto poca, perché molti oltre a noi si accorgeranno
di
qualcosa che è la base di quanto è successo a
Genova in quei giorni.
Esiste una posizione per cui parteggiare:
quella degli insofferenti, quella dei subalterni, degli
sfruttati, dei deboli, di coloro che lottano per un mondo migliore e
più equo.
Ed esiste un’altra posizione, quella di chi
comanda ed esegue, di chi tortura e vìola, dei forti con i
deboli e dei deboli con i forti, quella di chi esercita il potere e
lo coltiva.
Nella
vita bisogna scegliere. Noi lo abbiamo fatto, oliando meccanismi
di memoria che altrimenti avrebbero condannato all’oblìo una
pagina nera della storia italiana e internazionale. Noi lo facciamo
tutti i giorni. Non abbiamo rimorsi e non abbiamo rimpianti per
quanto è avvenuto.
Solo rabbia. E non siamo i
soli.
Supportolegale
Ieri
sera ho atteso la sentenza Diaz. A Pechino era notte fonda. Nessuna
sorpresa, qualche sera fa, nel gelo pechinese avevo provato a
spiegare perché la sentenza sarebbe stata questa. Niente di
che, è che avendo vissuto il processo, il comportamento del
giudice appariva fin troppo esplicito in ogni decisione da prendere.
Ho atteso lo stesso, ben sapendo che di sorprese ieri, ne avevo avute
abbastanza. Complice la pettinata che ci hanno dato gli juventini
(4-1) ero sveglio. E ho subito pensato: e adesso sono cazzi. Perché
gli assolti del processo, sono il Potere. E se l’Italia non esiste, perché è
un insieme di bande in lotta tra loro, quella parvenza di Stato
si coccola e aiuta, quando serve, i suoi fedeli servitori. E per chi
ha provato in ogni modo a mettergli i bastoni tra le ruote, ora arriva il tempo che non volevamo sognare: sucare di nuovo. I
vertici attuali della Polizia hanno dimostrato di usare il loro
potere mano a mano che hanno asceso i gradini della gerarchia. Hanno
complottato, hanno tentato in ogni modo di farsi sentire durante il
processo con intimidazioni, sfrontatezza (le molotov sparite dagli
uffici reperti del tribunale), sotterfugi, trucchetti, arroganza.
Riposto
qui quanto scritto dal mio socio. Si chiude una fase della nostra
vita. E ora, al solito, Nessun Dorma.
Se
non sapete di cosa sto parlando, andate a dare un occhiata sul sito
di supportolegale, che stasera di tempo per la didattica non ne
ho molto. Oggi si è conclusa una fase della mia vita che è
durata circa 8 anni. Si è conclusa con una sentenza che a
fronte di una storia che ormai tutto il mondo conosce assolve gli
organizzatori di una rappresaglia premeditata che è costata
quasi la vita ad almeno una decina di persone e la salute a molte di
più. Certo i Canterini-boys sono stati condannati e alle
vittime hanno dato 1000-2500 euro di danni. Una vera fortuna, no?
Chissà quante caramelle si potranno comprare. Il tribunale
di Genova, come era ormai palese considerato la condotta in aula
del suo presidente Gabriele Barone (sempre molto accondiscendente con
le difese degli imputati e molto intransigente con pubblica accusa e
parti civili), ha lanciato un segnale chiaro nei confronti di
tutti coloro che si degnino di ascoltare, un segnale di impunità
e di connivenza con quella rappresaglia. Questa impunità costerà cara a qualcuno, perché tutti coloro che in
questi anni hanno combattuto contro questi criminali in divisa sanno
bene che per costoro la rappresaglia adesso è solo all’inizio.
La speranza è che la sentenza non insegni solo a questi
signori che possono fare quello che vogliono tanto saranno protetti
da Stato e Giustizia, ma che insegni anche a chi ancora pensa di
lottare e partecipare alla vita politica del paese che c’è
solo un modo per affrontare gli sbirri e non prevede una interazione
democratica. Quello che dice la sentenza è questo. E forse era
necessario che un atto che non c’entra con quello che accade
quotidianamente inviasse un segnale chiaro di come si stanno mettendo
le cose. La sentenza non è uno schiaffo al passato, ma una
affermazione del presente e del futuro. Una lezione di storia che
come tutte le lezioni utili non serve solo per quello che è
già accaduto ma soprattutto per quello che accadrà. Il
tempo per scegliere è ormai vicino e nessuno potrà
pensare che basterà lasciarsi scorrere la merda che ci
arriverà in faccia addosso perché tutto torni entro
quella che ci piace chiamare normalità.
Imputato,
il
dito più lungo della tua mano
è il medio
quello
della mia
è l’indice,
eppure anche tu hai
giudicato.
Hai assolto e hai condannato
al di sopra di
me,
ma al di sopra di me,
per quello che hai fatto,
per come
lo hai rinnovato
il potere ti è grato.
Ascolta
una
volta un giudice come me
giudicò chi gli aveva dettato la
legge:
prima cambiarono il giudice
e subito dopo
la
legge.
Oggi, un giudice come me,
lo chiede al potere se può
giudicare.
Tu sei il potere.
Vuoi essere giudicato?
Vuoi
essere assolto o condannato?
Ajorn,
non è calcio, è nostalgia. Non è cipria, è
sorriso…;-)
Ogni
volta che Genova appare nelle cronache, lo fa suo malgrado. Come se
bisbigliare al di là dei carruggi, fosse una sorta di
lesa maestà al passato della città. Meglio il tiepido
rimbombo del dialetto imbastardito dai tanti migranti, a cullare i
propri sogni. E Diego Milito, delantero argentino, attuale
capocannoniere del campionato di serie A con 9 gol, ha la faccia
cruda da marinaio consumato: freddo e determinato, malinconico e
maturato dall’esperienza di tanti tanghi.
E
come i genovesi non ama raccontarsi. Del resto, dici Genova e dici
Argentina: la Boca, i xeneixes, volti, storie, magie. Milito, El Principe è uno degli argentini che si appresta a
diventare storia del club rossoblù. E i suoi connazionali con
un passato genoano, raramente sono passati inosservati. Nel 1949 il
Genoa ingaggia dal Boca Juniors, Mario Emilio Heriberto Boyè.
In Argentina ancora oggi è considerato una delle più
grandi ali destre della storia: lo chiamavano El Atomico. La
curva del Boca gli aveva dedicato una canzone ad hoc: «yo
te daré, te daré niña hermosa, te daré
una cosa, una cosa que empieza con B…Boye». Mica male.
Boyè arrivò a Genova, giocò una manciata di
partite, fece quattro gol contro la Triestina, sbagliò un
rigore nel derby e poi tornò in Argentina. Pare non
apprezzasse i ritiri: la moglie pareva gustarseli molto di più.
All’Atomico la situazione sembrò irreparabile: valigia, aereo
e via a Baires lontano dai ritiri e il professionismo all’italiana.
Boyè rimane un mito lontano e un po’ sfortunato: un grande
calciatore che non ebbe l’occasione di trascinare i rossoblù a
grandi vette. Passato remoto.
Situazione
diversa oggi, con Milito ad affondare difese e mantenere alta l’aura
di un Ferraris inviolabile. E’ arrivato a Genova, è tornato
anzi, dopo una stagione e mezza di gol e classe, dopo un distacco di
tre anni sofferto da tutti. Era andato via perché in C, non
avrebbe avuto senso la sua presenza. Era andato via da Genova per
andare a Saragozza, per giocare con il fratello Gabriel (ora al
Barcellona) e sperimentarsi nella Liga. Sembrava un addio, perché
di favole a Genova da un po’ non se ne vivono.
Poi,
quest’estate, a campionato già iniziato è tornato.
Senza starla troppo a menare con le consuete frasi fatte. «Sono
contento», ha detto in conferenza stampa. E dire che avrebbe
potuto ricamare sulla sua insistenza a tornare a Genova, anziché
andare a prendere le sterline del Tottenham (che avrebbero fatto
felici anche le casse del Saragozza). Ha scelto Genova, chiamiamolo
pure debito, roba da adulti.
Quando
il Genoa anziché portarlo in serie A (dove avrebbe dovuto fare
coppia con un certo Lavezzi), lo lasciò al Saragozza nella
tribolata estate della retrocessione in C, nessuno ci avrebbe
creduto. La Nord, stropicciandosi gli occhi, lo ha accolto ancora,
conoscendone la finezza tecnica e la modestia umana. E il numero di
gol in rossoblù in campionato: 42 in 69 partite. E ora tutti
si accorgono di Milito, attaccante, non un prodotto di marketing. E’
un calciatore. Parla poco, si fa i fatti suoi e alla domenica la
mette dentro in ogni modo: nell’ultimo turno di campionato ha fatto
gol col destro, di testa, con il sinistro in acrobazia e ha fornito a
Sculli una palla che conteneva un messaggio: devi
solo spingerla in rete.
Repertorio da bomber, senza troppi fronzoli e isterismi. Non si trova
il suo sorriso patinato sulle riviste, né si atteggia a maître
à penser
de noialtri (la casa, la chiesa, la famiglia, Cristo). Il suo colpo
migliore è la finta più classica, la prima che viene
insegnata alle scuole calcio, o forse la più naturale: fingere
di andare sull’esterno o calciare e rientrare con l’interno, a
nascondere pallone e pensieri. Milito non ha un colpo da playstation,
non è un giocatore da Youtube, da ravone, sombrero, trivele e belinate simili,
direbbero i genovesi. E allora quando la stampa nazionale si accorge
del campione Milito, ai genovesi fa piacere, ma un po’ infastidisce,
come se qualcuno osasse turbare un idillio riservato.
Lo
chiamano El
Principe,
Diego Milito. Perché come un altro Principe, l’uruguagio Enzo
Francescoli, ha l’eleganza del cigno sudamericano: flemmatico e
letale. Non solo: i due si assomigliano proprio. Quando Milito arrivò
a Genova nel 2004, un po’ più smilzo e con meno stecche prese
negli stinchi, sembravano due gocce d’acqua.
Ora
a Genova si parla addirittura di Maradona: il neo ct argentino non ha
convocato il Principe, preferendogli il genero Aguero e il napoletano
Denis. E giù a brontolare, ben sapendo che forse è
meglio così. Lui ha pensato la stessa cosa: «mi spiace,
ha detto, ma almeno potrò dedicarmi al Genoa». E lo
staff rossoblù lo sta spremendo come un limone. L’ultima
convocazione in nazionale lo aveva riportato in Italia a poche ore
dal match con l’Inter a San Siro. Ha dormito qualche ora, è
andato da Gasperini, mister genoano, e gli ha detto: io gioco. E ha
corso come un matto, mentre gli interisti cercavano di scardinare
l’ordine genoano retto da quello là davanti, serpente a
sonagli nelle praterie meneghine.
E
dire che Milito non è uno che non si è tolto le sue
soddisfazioni. Nel suo primo anno al Saragozza, quando incontrò
il Real Madrid, gli fece quattro pere per un 6-1 finale che puzza di
storia. Il primo di destro, dopo un controllo al volo nell’area
piccola. Il secondo, finta a rientrare e colpo d’esterno a superare
Casillas ancora per terra. Il terzo e il quarto di testa. Tutto
questo non è abbastanza per il calcio moderno, alla ricerca di
brand, marche, stereotipi, ma è sufficiente per fare sognare
una città. E quel che conta è che è tutto vero. [da Il Manifesto]
Ci
sono dei fenomeni sociali, delle paure, che vengono create ad arte,
in ogni società informazionale. Come fossero uno stadio di
quel genere di società basata sul controllo e la pratica della Comunicazione (molto più complessa di quanto solitamente si
ritiene con quel termine, specie oggi). Così, se da noi si
parla di bullismo,unendo internet, problematiche sociali, in un
calderone che abitua a non distinguere, a non considerare
il tutto come qualcosa che sia più della somma delle parti
(mi è uscita così, senza manco accorgermene: la Gestalt), pure in Cina la convergenza culturale, crea
meccanismi di indagine sociale, molto simile a quelle che da anni
vediamo e leggiamo dalle nostre parti.
Il
divario sociale e le differenze create dalla ricchezza e dallo
sviluppo, creano nuove forme di controllo sociale, sempre più
sofisticate. Creano miti, anche, come risultato di una voluta
confusione tra residuo sociale e novità culturale. La paura è
una di queste e non sembra fare una eccezione lo strambo meccanismo
di potere cinese. Si è parlato della generazione dei nati
negli anni 80: non si è ancora capito da quale retroterra
culturale possono attingere i giovani cinesi, che già si
abbassa l’età media protagonista della ricerca sociale, da un
lato, e il suo protagonismo dall’altro.
Ed
ecco le Gang di Pechino, dei giovani degli anni 90:
most
of them were underachieving, marginalized students ignored by their
parents, dismissed by their teachers, and looked down on by their
classmates.
Li
Tao è un bulletto nato nel 1989, ma secondo un tribunale cinese è a capo
di una gang che piano piano si è ingrossata, fino a scontrarsi con la giustizia cinese. La
Gang dei Black Clothes (all’interno della quale io e il mio
socio non sfigureremmo certo, benché un po’ appassiti da un
punto di vista dell’età…). All’inizio i giovani avevano
creato la gang per difendersi, poi sono passati alla fase successiva:
offendere.
Per
due anni hanno fatto il cazzo che hanno voluto, fino a quando, nel
maggio di quest’anno hanno attirato l’attenzione della polizia
chinaa.
In
un articolo è raccontato il fatto: That afternoon at around
one o’clock, gang member Sun Qiang went out to eat lunch. In a garden
next to a high school in Haidian’s Dinghui Xili neighborhood, he got
into an altercation merely because the victim, Zhu Hong, had looked
at him wrong. Venting his anger, Sun told Jia Bin to notify Li Tao to
bring people over to take revenge.
Li
Tao quickly gathered together the nine suspects, including Wu Da and
Jian Guo, who were attending class at the time. They went over in two
taxis. They carried clubs and bricks; someone had bought a machete
from a shop, and they had a black replica gun trained at the victim’s
head. Then the Black Clothes Gang rushed forward and it turned into a
melee. Ultimately, Zhu Hong received eight knife wounds, and a tendon
in his thumb was completely severed. These were light injuries,
according to the legal determination. After the incident, the police
recovered the knife used by the Black Clothes Gang: a machete 50-cm
long and 4cm wide.
E
non che questi non siano organizzati: hanno una gerarchia, delle
regole e ognuno paga una retta per finanziare le proprie attività. Qui trovate la storia.
Quello
che mi pare interessante, è il fatto che ultimamente anche in
Cina si stia sottolineando l’esistenza di una voglia di outsiderismo incomprensibile, per i cinesi, tra i giovani. Soprattutto attraverso le maglie di Internet. Deviazioni che ovviamente non piacciono al potere, quando non possono essere veicolati da trame commerciali. Ovvero non piacciono quando prendono sentieri che paiono andare in culo alle esigenze del capitale. Mi ricordano i
primi passi della creazione della paura. Il babau avanza anche in
Cina, e non è un segnale positivo.
il
babau è un mostro bianco per chi di vivere ormai è
stanco
il babau è un mostro nero, finisci dritto al
cimitero
il babau è tutto rosso, corri corri a piu’ non
posso
il babau è tutto giallo, tocca pure al
maresciallo
il babau è anche blu, occhio il prossimo sei
tu
il babau è di tutti i colori, se lo incontri sicuro
muori
La
sera in cui abbiamo pasteggiato a granchi, tra i vari commensali
c’era anche un ragazzo cinese, un artista. Guardando i granchi, gli
si è accesa una lampadina. Quest’estate aveva i capelli
lunghi, il che gli conferiva un fascino tutto particolare. Si è
rapato, ma l’ingegno non è venuto meno, così come i
suoi progetti.
Guardando
i granchi arrotolarsi nel lavandino e tra i denti degli ospiti, il
ragazzo ha pensato a una performance artistica, tra Dao, modernità,
profitto e vita. Il Dao dei granchi. Sinceramente: qualche
italiano ha partecipato alla preparazione, si sono tradotti brevi
testi e registrate voci per la performance, ma non ci abbiamo capito
un granché e mi è parso di non riuscire a cogliere
l’esatto messaggio del tutto. Per dire nel volantino tradotto c’erano frasi che suonavano più o meno così:
Forse
qualcuno di noi ha bisogno proprio di questo: rilasciare gli artigli,
afferrare un simbolo e mangiarlo. E come gli animali, adattarci alla
Via della sopravvivenza, senza giudizio alcuno. Quindi? La mia insegnante, quando le ho
spiegato la performance, mi ha detto: l’arte non va capita.
Punto.
Allora
mi è venuto in mente un amico artista italiano. Un genio che
fa mostre e robe grafiche da togliere il fiato. Una volta l’ho
beccato a scannerizzare le patatine di Mask e farci quadri
spettacolari. Poi un’altra volta mi ha chiesto alcuni omini del
subbuteo. Stava friggendo oggetti per una mostra (la foto è
una delle sue opere). Anche in quei casi mi pareva mi sfuggisse
qualcosa, ma avevo dei punti di riferimento simili: consumare,
produrre, crepare, ad esempio. L’importante era che quanto faceva
questo mio amico mi faceva sempre pensare, pur senza capire il senso profondo, ma percependo elementi comuni.
Nel
caso dei granchi, a essere sinceri, non ho capito quale potesse essere uno sfondo di valori condivisi, grazie ai quali avvicinarmi al senso della cosa. La performance era così organizzata: al 798, nello
slargo che non so perché sembra una sorta di piazzetta
principale di un luogo immenso, su un telo erano stati disegnati i
continenti della terra. Ai lati alcune persone, coricate per terra e
infagottate in maglioni coperte e sacchi a pelo che faceva un freddo
che non mi sarei stupito di vedere spuntare dei pavoni di grandezza
inusitata. Ogni tanto ai performer, che cominciavano a puzzare di granchio, si portava caffè, sigarette. Profughi dei granchi.
In
mezzo al tutto: un centinaio di granchi che si muovevano sui
continenti e sulle persone. Ogni granchio aveva su di sé una
foto che rappresentava un personaggio politico, un brand, un
personaggio storico, reale e immaginario. Un brodo culturale contemporaneo. Potere, fama, soldi, potere. C’erano Shakespeare, per
dire, Berlusconi che faceva le corna, Obama, Mao sulla banconota da
100 yuan, Lei Feng, l’esempio per eccellenza di altruismo e buontade
cinese, e tanti altri.
Mano
a mano una ragazza raccoglieva un granchio, veniva bollito e mangiato
da chi si era prenotato: un tavolino abbastanza lungo era messo di fronte alla performance. In fila come in una mensa la gente si sedeva e con i guantini trasparenti si magnava granchio e si attaccava addosso la figurina di cui era stato carnefice. Vittime e carnefici, natura e
giudizio, non so. Termini che per noi rappresentano riferimenti
culturali di cui siamo a conoscenza. Ma che non sono gli stessi dei
cinesi. E’ stata davvero un’esperienza frastornante. Il tutto è durato due ore circa.
Io
il granchio non l’ho mangiato. Mi sono ingozzato di wurstel cinesi agghiaccianti. Non ho capito cosa significasse la
rappresentazione e temevo che sarebbe stato il granchio a mangiare
me. Allora ho passeggiato per gli avanzi di quel complesso di
fabbriche, apprezzandone la luce buia che rischiarava una certa idea
di Cina. Quella dei poster maoisti, che sembra sempre si siano
accorti troppo tardi di avere finito il colore. Pallida, ma roboante.