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[Olympics] Bolt e la danza leggera

Quando
si è rivisto sullo schermo in sala stampa, non si è
trattenuto: «it looks cool», ha esclamato. E tutti a
guardare e annuire: è davvero strabiliante. Anche se Usain
Bolt, classe 1986, ieri sera dopo la sua corsa, sembrava avere la
faccia di chi ancora non si rende conto di cosa ha combinato. O forse
è uno che sa vincere con la stessa leggerezza con cui si
prepara alla gara e con cui supera gli avversari, in un arrivo veloce
e solitario. Che sa dare tutto e concedersi esultanze, balletti e
urla di gioia alla telecamera: è lui il numero uno. Il
giamaicano ha stravinto nei 200 metri, stabilendo il nuovo record del
mondo. Ha superato Michael Johnson, il cui tempo reggeva da Atlanta
1996 e ha raggiunto Carl Lewis, unico ad avere vinto 100 e 200 metri
in una sola Olimpiade. Un posto solo per sé nella storia però
Usain Bolt se lo è voluto ritagliare ugualmente: è
l’unico dall’introduzione del cronometraggio elettronico ad avere
vinto entrambe le gare, stabilendo due record del mondo (9”69 nei
100 metri, 19”30 nei 200). Tutto questo il giorno prima del suo
compleanno. E per suggellare vittoria e primato Bolt questa volta è
partito ed arrivato forte. Nessuna frenata. Dritto fino alla fine,
perché a questa gara ci teneva particolarmente: «non mi
interessava fare il record dei 100 perché era già mio.
Ma oggi era un altro discorso, perché i 200 sono il mio primo
amore. Ho cominciato a vincere su quella distanza quando avevo 15
anni, ma non saprei dire perché preferisco i 200». Una
sensazione, ha detto. E come tale è difficile renderla
spiegabile: «l’importante – ha aggiunto – è che ora sono
nella storia».

Bolt ha parlato dopo oltre un’ora dalla fine
della gara. Perché la finale dei 200 metri che si è
corsa ieri sera al Nido d’Uccello di Pechino, è storica in
ogni senso. Squalificati il secondo e il terzo classificati,
l’antillano Martina e lo statunitense Pearmon, sono andati a medaglia
altri due atleti Usa: Shawn Crawford e Walter Dix. Proprio Crawford,
mentre i giudici decidevano l’ordine di arrivo definitivo, si era
lasciato scappare una battuta: «se squalificano anche Bolt, ho
vinto l’oro». Ma la medaglia del giamaicano non è mai
stata in discussione, né mentre Bolt mimava il gesto
dell’arco, né quando è uscito dai blocchi. Il primo
ministro giamaicano gli ha fatto, di nuovo, i complimenti, mentre a
Kingston partivano le danze. E Bolt ha ballato anche ieri sera, pur
avendo corso in modo differente rispetto ai 100 metri. Solita
preparazione scenica a fare un po’ il gaggio, poi a tirare fino alla
fine. Perché con quel record è leggenda. Michael
Johnson, detronizzato dal fenomeno giamaicano (il suo record era di
19”32), dopo averlo definito un Superman ha offerto la sua lettura
sulla gara di Usain: «ha avuto una partenza incredibile, ancora
più impressionante che nei 100. Una persona così alta
non dovrebbe essere in grado di partire così forte. La mia
preoccupazione era che non riuscisse a tenere quella velocità
per tutta la gara, ma ha dimostrato di aver lavorato su questo
aspetto. Ha usato ogni grammo della sua energia, davvero voleva
questo record».

«Se continua a correre così
veloce arriverà su Marte», aveva detto qualche giorno fa
Eugene Cernan, l’ultimo uomo a mettere piede sulla luna con la
missione Apollo 17, mentre Mennea, il cui record (19”72) fu battuto
da Johnson dopo 17 anni, disegna il futuro delle competizioni: «nei
prossimi anni lotterà solo contro se stesso, perché non
ha rivali. Può arrivare a 19”20 sui 200 e ai 9”50 sui 100».
Non solo, perché Bolt pare essere uno cui piace vincere,
proprio sfidando se stesso. E allora perché no i 400? Tirando
su gli occhi come un ragazzino che non sa se dire la verità o
una bugia, risponde: «credo che tutto sia possibile, lavorando
con l’impegno che ho messo nella preparazione quest’anno. Ma adesso
voglio solo andare a dormire, e svegliarmi domani mattina sapendomi
due volte campione olimpico e recordman del mondo».
A
gettare un’ombra appena soffusa su tutto questo è un tedesco.
Dopo tante ricerche di aggettivi roboanti, Tobias Unger ha definito
ieri le vittorie di Bolt come «una porcheria». Secondo il
più veloce tra i tedeschi, «in Giamaica non esistono
controlli antidoping. Finora la cosa non mi ha disturbato, ma se devo
correrci contro rischio di perdere il divertimento nel praticare il
mio sport». Poi ha cercato di spiegare le cause che inducono a
tali accuse: «è una follia, arriva allo stadio in
pantaloncini, fa un po’ di stretching e inizia a correre: non è
possibile». E ha anche sempre uno zaino nero in spalla, se è
per quello. Per Bolt le ragioni dei suoi primati sono solo
nell’allenamento, nel suo allenatore e nelle ormai famose polpette di
pollo, che lo contrappongono ancora di più a un confronto
mediatico con l’altro superman olimpico, Michael Phelps e le sue
pizze e spaghetti pre nuotata.

Ma quello che sicuramente Phelps non
fa, è danzare ritmi giamaicani.[da il manifesto]

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[Olympics] Bolt e Lewis

Ieri
sera sono andato a vedere per la seconda volta Bolt (quello che ha vinto 100 e 200) e mi è
toccato scriverci. E mentre scrivevo avevo in mente una roba che
scrisse Baricco anni fa (nel 1994 che aveva sta rubrica su La Stampa) su Carl Lewis. Un po’
come quando ti rimbalza una canzone di cui non intravedi i contorni
per ricordarla. Però la cerchi on line, la scarichi e ti levi il problema. Oggi ho un po’ ravanato e l’ho
trovato, grazie agli archivi on line de La Stampa.

L’articolo è qui sotto. Come diceva Beppe Viola, sarei
disposto ad avere 37 e 2
tutta la vita in cambio della
seconda di servizio di Mc Enroe…

Lewis,
gli occhi del mito sono due uova al burro

Nel
gran mare di soccer (si dice cosi’, adesso, e sembra un’imprecazione
in bolognese) in cui navigano giornali e tivu’, provo a far tornare a
galla il ricordo di quando sono andato all’Olimpico, un po’ di sere
fa, a vedere uno che non avevo mai visto, dal vivo, e che bisognera’
pur vedere, una volta, prima che smetta di volare: Carl Lewis, quello
delle otto medaglie olimpiche, quello dello sport pulito, quello in
tacchi a spillo per far pubblicita’ ai pneumatici: il figlio del
vento. Li’, a Roma, al Golden Gala, Grand Prix di atletica,
quarantamila spettatori, il magico pubblico romano, dice lo speaker
con tono da documentario Luce del ventennio. Vista dalla tribuna
stampa l’atletica e’ una cosa simile a un pomeriggio all’oratorio.
Gente che gioca, di qua e di la’, ognuno al suo gioco, e tu non sai
dove guardare. Ogni tanto gli oratoriani si incrociano, con effetti
vagamente comici. Per dire: se ne sta come una statua greca,
Sotomayor, il cubano che salta piu’ in alto di tutti, fissando
l’asticella con una intensita’ da amplesso telepatico, ed e’ un
duello magnifico e immobile, in attesa dell’esplosione del salto, se
non fosse che poi tra gli occhi dell’uno e la fissita’ orizzontale
dell’altra se ne passano scaracollando quelli dei tremila siepi, dei
poveracci, al confronto, delinquenti in fuga, diresti, le scarpe
grondanti acqua, i crani scheletrici dei keniani, il fazzoletto
grunge legato sulla testa di Panetta, le magliette marce di sudore,
gli occhi vagamente atterriti. Sotomayor si vede passare in camera da
letto l’allegra brigata di sbandati ma nemmeno sembra accorgersene:
continua il suo coito privato con l’asticella.

Come all’oratorio,
quando ti schizzava davanti, palla al piede, l’ala destra di una
qualche partita, e tu neanche lo vedevi perche’ stavi giocando a
figurine (a muro) e ti fosse anche passato un treno, li’ davanti,
quel che vedevi era solo il Bulgarelli che avevi in mano e il muro.
Fatte le debite proporzioni, si intende. Fatte le debite proporzioni,
il figlio del vento scende in pista come se fosse un dio. In maglia
rossa e fuseaux neri. Quando capisco che non sono fuseaux ma gambe
pure e semplici capisco che l’atletica non si puo’ guardare dalle
tribune e scendo giu’, facendo finta di essere un fotografo e finendo
ai bordi del campo. E cosi’ lo vedo, davvero questa volta, da vicino.
Faccia tirata, gli occhi un po’ spiritati, come uova al burro in un
piatto nero, muscoli carenati per alte velocita’ (ancora un po’ piu’
su e le chiappe potrebbero tranquillamente servirgli da poggia
testa), gesti calcolati al millimetro come regolati da una
coreografia. Gli altri si scaldano: lui volteggia. Si e’ portato
dietro il suo clan del Santa Monica: c’e’ Leroy Burrel, occhi da
Bambi e muscolatura esagerata, c’e’ Mike Marsh, che sembra Spee-dy
Gonzales, un turbo topo. Ce l’ho proprio davanti, il turbo topo,
mentre si sistema i blocchi di partenza con un metro da sarta,
limando i millimetri con la serieta’ di un orologiaio che sistema
rotelle e viti. E’ il primo frazionista della staffetta 4×100. Brutto
a vedersi ma quando si ingoia una ventina di metri, cosi’ per
scherzo, per sciogliersi i muscoli, sembra che la pista nemmeno la
tocchi. Se ne torna ai blocchi camminando goffamente, con l’aria
soddisfatta di uno che s’e’ fatto una bella sfollata al semaforo. Si
risistema giu’ in quella specie di genuflessione che e’ come una
miccia accesa. Gli impazzisce il diaframma, nei pochi istanti prima
del via e nel silenzio pazzesco del microsecondo che precede lo
starter riesco a sentire il sibilo da agonia con cui si riempie di
ossigeno i polmoni e il cervello prima di sparire lungo la curva e
andare a respirare di nuovo cento metri e dieci secondi piu’ in la’.
Ho ancora la sua immagine negli occhi quando dal fondo del rettilineo
parte King Carl, col testimone in mano e quarantamila romani a
guardarlo e a urlare. Non c’e’ gara, a far fuori gli avversari ci
hanno gia’ pensato i primi tre staffettisti.

Corre praticamente da
solo, il semidio, lui contro il cronometro, con quella sua corsa da
galleria del vento, non una sbavatura nel profilo da coupe’ in
autostrada, le mani rigide come lame, la schiena dritta come a
tavola, gli occhi inchiodati in un unico punto cieco da cui si
staccano solo nell’istante dell’arrivo per rimbalzare meccanicamente
sul tabellone, alla ricerca del tempo, nemico immateriale e
imperturbabile, quattro cifre stampate lassu’, quattro cifre che ti
possono cambiare la vita. Mette in folle, Lewis, appena tagliato il
traguardo, e lascia andare le gambe, come un ciclista in discesa.
Sulla spinta me lo vedo arrivare di fronte, e alla fine fermarsi
proprio davanti. Non e’ sudato, non e’ affannato, sulla faccia ha il
grado zero dell’espressione. Il nulla. Per un attimo, prima che lo
seppelliscano fotografi, compagni, giudici e gente varia, riesco a
stamparmi nella memoria quella strana foto. L’uomo piu’ veloce del
mondo, da fermo, sembra che non esista nemmeno.

(Alessandro
BARICCO)

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[Olympics_in_breve] Problematiche sfiorate nell’ambito di strategie generali

Da un’agenzia: «Quello
delle Olimpiadi a Pechino francamente è uno scandalo».
Lo ha detto Fausto Bertinotti, ex presidente della Camera, durante un
dibattito con Vito Mancuso, Giulio Giorello ed Enrico Cisnetto a
«Cortina InConTra 08». Bertinotti ha proseguito: «se mi dicessero di
andare ad abitare in Cina, sinceramente risponderei: no grazie».

E
meno male. (bello l’anagramma del meeting…)

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[Olympics] L’eroe triste

Lui
ha sempre parlato poco. I suoi allenatori invece hanno sempre
dispensato parole: «Piace alle donne giovani, alle donne anziane e
anche agli uomini». Poi: «È membro del partito
comunista, quando si ritirerà potrà essere di più,
un candidato del popolo». In pratica, un mito. E così
ieri, mentre i suoi tecnici sono scoppiati a piangere durante una
conferenza stampa surreale, lui probabilmente era da solo a cercare
di trovare una ragione per tutto. Si consolerà con il tempo,
ma la sensazione di avere perso l’occasione che capita una sola volta
nella vita, faticherà ad andarsene. In pratica, un disastro.

Liu Xiang, colui che ha portato in Cina la prima medaglia
olimpica della storia nella corsa (110 metri a ostacoli), ieri si è
ritirato dai Giochi pechinesi, per un infortunio. Volto di un numero
spropositato di brand, vita controllata, il più pagato (25
milioni di dollari), eletto a gennaio consigliere politico nazionale,
non difenderà il titolo olimpico conquistato ad Atene nel 2004
(quest’anno ha vinto anche i mondiali di Osaka in Giappone).
Sportivamente mancherà la sfida con il cubano Dayron Robles,
che qualche mese fa gli aveva sfilato il record mondiale. Dal punto
di vista umano è una delle piccole tragedie che lo sport
regala ai suoi protagonisti in aria di mitologia. Così, dopo
dieci giorni di sorrisi, per la Cina arrivano le lacrime. E sono
pesanti, inaspettate e terribili. A tradire il sogno dei cinesi, è
proprio l’uomo che pensavano lo avrebbe realizzato. Un infortunio che
non gli ha dato pace, hanno specificato gli allenatori di Liu. Un
problema al tallone d’Achille che fa soffrire la progressione
dell’asso sportivo da almeno sette anni, hanno confessato i tecnici
davanti ai giornalisti basiti. Non increduli, perché da mesi
si inseguono sia le voci su infortuni vari, sia soprattutto i fatti:
Liu Xiang non corre da tanto tempo. E di sera sulla Cctv, la
televisione pubblica cinese, è come se le Olimpiadi non ci
fossero mai state: esiste solo Liu e il dramma sportivo di una
nazione. A testimoniarlo servizi infiniti in cui medici vari spiegano
la natura della tendinite. Volti contratti, che questa è già
una questione nazionale, tanto che su qualche blog alcuni commenti
ridimensionano il clima funereo: «Sta esagerando, i media ne
parlano come fosse morto Wen Jiabao».

Gambe, tendini, muscoli,
ma i dolori veri per il venticinquenne di Shanghai sono di altro
tipo. «La vera sofferenza è nella testa», ha
spiegato un altro mito, il maratoneta Gebrselassie. E da lì
sarebbero partiti i problemi di Liu Xiang, a sentire il suo vecchio
mister di Shanghai: «Troppo allenamento, derivato da pressione
– ha dichiarato in giornata – da parte di tutti, del governo, degli
allenatori e dalla gente. Liu è ancora giovane, gli hanno dato
troppe responsabilità». E lui se lo ricorda da ragazzino
scattante, poco tecnico e portato ai 110 metri a ostacoli, dopo un
tentativo nel salto in lungo. Rapido e sconosciuto. Ieri invece negli
occhi olimpici dei cinesi e non solo rimarrà la falsa partenza
e quello scattino di Liu Xiang, poi la mano sulla gamba, contratta,
con quel numero 2 appiccicato addosso. Niente da fare: è
uscito da uno stadio ammutolito a vederlo andare via. Lo hanno
seguito sguardi e sospiri mentre imboccava il tunnel che porta fuori
dal Nido d’Uccello e dalla storia. E i biglietti per la finale, sono
già in vendita a prezzi stracciati. Senza Liu Xiang, perdono
il senso.

Liu è arrivato all’appuntamento dopo aver vissuto
un anno da paura, tra pressioni, infortuni e agitazione sua e dello
staff. Un paese addosso, il più popoloso al mondo, a
respirargli sopra, accanto, a chiedere e volere notizie,
rassicurazioni. Come fosse possibile vincere, prima di gareggiare.
Come fosse possibile racchiudere in 110 metri la voglia di rivincita
di migliaia di anni, di un paese in vetrina che vuole successi anche
dove storicamente gli è andata sempre male. E pretende le
vittorie considerate più scontate. «Sotto pressione»,
aveva titolato il Time qualche mese fa, mettendo Liu in prima pagina.
«Se non vince a Pechino – un’altra delle tante frasi di
conforto del suo allenatore – Liu Xiang non è nessuno».

Il ragazzo sembrava avere tenuto i nervi saldi, trascinando con
sé il proprio popolo in un’attesa spasmodica, ma fiduciosa.
Senza bizze, colpi di testa, anzi.

Figlio di un’operaia e di un
camionista, riservato e senza vezzi da star, tanto che vive ancora in
un bilocale, si è rinchiuso nella quiete solitaria
dell’allenamento del predestinato. Ha pensato solo a quello.
D’altronde la sua condizione è da tempo cambiata: da studente
universitario è diventato una star. Pur essendo miliardario,
però, ha detto un giorno, non ha la possibilità di
spendere i soldi, di fare shopping come una persona normale. Se esce
per strada, si blocca il traffico e si creano ammassi di gente. E
allora tanto vale farsi i fatti propri e non fare parlare di sé,
almeno fino alle Olimpiadi. E ieri il suo volto, le sue mani alle
gambe, assicurate per 13 milioni di dollari, hanno reso Liu Xiang un
eroe triste, ma in grado di smuovere il suo popolo dopo tanta attesa.
«Vinco non perché corro per lavoro – aveva detto – ma
perché mi piace». Poi il silenzio. Non si possono certo
confessare ai giornalisti cinesi i sogni notturni, specie quelli più
brutti, con gli adduttori a dare fastidio e quel tendine a pulsare.
Un po’ tutti hanno cercato di consolarlo, anche perché la sua
sofferenza, fin dalle fasi del riscaldamento, ha bucato schermi e
cuori. Il vicepresidente Xi Jingping ha chiamato i vertici dello
sport cinese per esprimere «solidarietà» e
«preoccupazione» per le condizioni fisiche dell’atleta.
In ogni programma della notte, il nome di Liu Xiang non è
mancato mai.

Mentre la Cina si addormentava, sperando di svegliarsi e
vedere tutto ricominciare da capo, ma con un finale diverso. Un sogno
anche per Liu Xiang, se è riuscito a dormire. [da Il manifesto 19.08.08]

Posted in Pizi Wenxue.


[Olympics] Ping pong & Movida

«Agli
amici italiani che mi chiedono della Cina, rispondo: venite a
vederla. Solo stando qui, si può capire qualcosa di questo
paese». Wenling Tan Monfardini, classe 1972, è
un’attaccante e non lo nasconde. Non c’è mai una palla troppo
bassa: vanno tutte bene per schiacciarle dall’altra parte della rete.
Ogni tanto capita di doversi allontanare dal tavolo e difendersi.
Dura e morbida, pesante e leggera, yin e yang. «Acqua – ha
detto tempo fa – devo essere come l’acqua». E dal vivo si muove
ora lenta ora rapida, concentrata anche quando passa la mano sul
tavolo, mentre aspetta la pallina. E a salvarla dalle situazioni
difficili della partita, è sempre quel colpo istintivo,
rabbioso e preciso che segna un attacco.

Per le cronache sportive è
una giocatrice di ping pong italiana. Nata in Cina rappresenta
l’Italia a Pechino, insieme alla sua collega Nikoleta Stefanova,
bulgara e al rumeno Mihai Bobocica. L’allenatrice di Wenling Tan è
ungherese. Un melting pot per uno sport assai minore in Italia, ma
che in Cina trova il suo vertice: è lo sport nazionale. Ieri
nella palestra dell’università di Pechino c’era anche
Petrucci, il presidente del Coni, per vedere l’esordio del team. Tan
Monfardini, nata in Cina, anni fa è giunta in Italia. Ha
incontrato un uomo che di mestiere fa l’apicoltore. Si sono sposati,
hanno una figlia. Ormai sono undici anni che Tan Monfardini vive in
Italia, unendo alla vita quotidiana la sua passione sportiva per il
ping pong, con risultati importanti: campionessa nazionale nel 1999 e
nel 2000 e dal 2002 al 2005, medaglia d’oro, d’argento e due bronzi
ai Campionati Europei del 2003, 2005 e 2007. Oggi prova a sfidare le
regine del ping pong cinese, in casa loro, con la maglia azzurra.

Ieri ha avuto la meglio dell’ucraina Sorochinskaya (4-2) al
termine di un incontro sorprendentemente combattuto, con l’avversaria
a ergere il muro agli attacchi dell’italo cinese. «Non la
conoscevamo – ha detto l’allenatrice – e per questo Wenling Tan ha
faticato». «C’è bisogno di ambientarsi – ribatte
la protagonista al termine della gara – bisogna conoscere il tavolo,
le distanze. Per vincere, tutto deve essere perfetto». E dopo
le note tecniche sull’incontro, si passa alle sensazioni e alla
particolarità della situazione. Una cinese che gioca per
l’Italia a Pechino. «È un’emozione forte, sono contenta
di essere qui e di gareggiare per l’Italia. Così ho per me il
tifo degli italiani e anche dei cinesi». E a Pechino, ad ogni
punto, Wenling Tan mormorava un sì tutto italiano, tra i
sorrisi dei connazionali: «Con le cinesi ho degli ottimi
rapporti. Sono andata a complimentarmi con loro per la vittoria della
gara a squadre. Le cinesi che gareggiano con altro passaporto sono
considerate delle ambasciatrici della Cina in giro per il mondo».
E ce ne sono tante. Oggi Wenling Tan se la vedrà con
un’austriaca particolare: una cinese nata a Pechino, Li Qianbing.
Figlia di Li Xiaodong, il tecnico della squadra maschile di ping
pong, quella cinese. Cose da Beautiful, ma non è strano: su 48
donne che rappresentano 16 federazioni di ping pong, nell’edizione
olimpica di Pechino, 28 sono nate in Cina. E ai cinesi la cosa non dà
fastidio: per una che se ne va, solitamente perché messa da
parte a causa della dura selezione locale, in casa ne hanno già
due più forti e più giovani. Ad Atene nel 2004 si era
parlato di una sorta di coalizione di tutti i paesi contro la Cina, a
causa del cambiamento di alcune regole, anti dominio cinese (pallina
più grande, set a 11 punti). Zhenhua, tecnico del dream team
all’epoca, commentò serafico: «Vinciamo anche se
giochiamo con le mani, senza la racchetta». E dire che la
diplomazia ha anche ammantato di storia lo sport nazionale del
Dragone. E le cinesi, nel ping pong sono ambite da tutte le
federazioni: «È come per i brasiliani nel calcio – ha
detto un giorno Jan-Ove Waldner, star svedese del tennis tavolo – se
uno è brasiliano anche se non è un fenomeno, è
sicuramente bravo. Nel ping pong, se è cinese va bene».

Tan Monfardini va più che bene e sogna una medaglia.
Uscita presto ad Atene l’obiettivo odierno è arrivare tra le
prime otto proprio in Cina, dove torna regolarmente per fare visita
ad amici e parenti, ma di cui ancora non ha valutato i cambiamenti
della capitale. A Pechino da sei giorni ha solo cercato
concentrazione, «Anche se mi sembra bellissimo qui. Meglio di
questa Olimpiade non ce ne sono mai state, né ce ne saranno
mai. Gli impianti sono favolosi e per vincere una medaglia serve che
tutto sia perfetto, ogni minimo dettaglio».

E la Cina è
patria di ping pong: non a caso Wenling Tan porta regolarmente sua
figlia Gaia, di sette anni e mezzo, a Liaoling, provincia cinese nord
orientale, dove è nata e dove la scuola di tennis da tavolo ha
sempre sfornato campioni. Come Wang Nan o Guo Yue, stelle della
nazionale cinese. «La differenza tra italiani e cinesi nel ping
pong emerge tutta. Ci vuole concentrazione, dedizione e allenamento.
La mente deve essere sgombra, non devono esserci distrazioni. In Cina
si lavora su questo aspetto, oltre a quello tecnico. La differenza la
fa l’allenatore. Mia figlia mi sembra portata e vorrei diventasse
brava, quanto le cinesi». Infine, dopo le domande di alcuni
cronisti giapponesi, a Wenling Tan tocca l’argomento caldo, il Tibet
e le polemiche sul suo paese. Appoggiandosi al muro della zona mista
della palestra, lei prova a ritornare acqua: «Ogni paese ha i
suoi problemi, io ora devo pensare solo all’Olimpiade».

 

Village
People al China Doll

Il
China Doll è il club più fichetto di Pechino. L’hanno
aperto l’anno scorso a Sanlitun, il cuore della movida locale e in
pochi mesi ha ramazzato tutti i premi possibili e immaginabili.
Miglior design, miglior after hour, miglior posto per trovare una
fidanzata/o, miglior centro d’avvistamento di esseri umani, persino i
cessi migliori. Appartiene a Ai Wan, attrice, modella, producer,
stilista, scrittrice (La follia dell’appetito è stato il
best-seller assoluto del 2006), nata a Shanghai, cresciuta in
America, poi rientrata in Cina, simbolo della nuova classe creativa
della capitale. Nel suo locale s’infilano soprattutto giovani
espatriati stranieri, non ci sono liste vip, si pagano 200 yuan
(circa 20 euro) e si entra senza problemi. Domenica sera c’era un bel
pezzo di villaggio olimpico a scaldare la pista da ballo del China
Doll, quinto piano di un palazzo di vetro con vista sulla strada dei
bar. Nuotatori in prevalenza, quelli che hanno già finito di
gareggiare ma anche cestiste, pallavoliste, velocisti in incognito.
Corpi di atleti sotto magliette anonime, jeans sdruciti, vestitini
scollati, canottiere e catene da rapper i più scuri di pelle.
Pettorali da urlo certo, ma molto meno impressionanti che in gara.
C’era Alain Bernard, il re francese dei 100 stile libero e con lui il
compagno Amaury Levaux che gli ha soffiato l’argento nei 50. Il
brasiliano Cesar Filho Cielo, che li ha battuti entrambi, primo pesce
carioca della storia olimpica. L’inglese Alex Partridge (argento nel
canottaggio), l’intera squadra canadese e poi olandesi, americani,
tedeschi, australiani, estoni. Tutti scatenati nelle danze, tutti col
naso all’insù quando una nuotatrice russa bellissima è
salita sul cubo, vera regina della serata. C’erano pure due neo
medagliati azzurri, un po’ impacciati con la divisa ufficiale e i
loro metalli olimpici al collo, seduti sullo sgabello soli soletti a
osservare tutta quella varia umanità.

Nessuno dei due era
Montano, lo sciabolatore super paparazzato abbonato al Bilionaire di
Briatore, fresco vincitore del bronzo a squadre festeggiato chissà
dove. Non erano nemmeno calciatori, abituati a muoversi in mezzo a
tutt’altra fauna col loro codazzo di veline e amici fidati. Erano
canottieri, mischiati ai loro simili. I Village people, ragazzi che
ballano, fumano, chiacchierano, si ubriacano, pomiciano, vomitano al
bagno. Una festa Erasmus in piena regola, età media 23
anni.
Le coreografie del posto sono a metà strada tra
futurismo, porno e fantascienza super chic: foto retro-illuminate di
bambole cinesi e cavallucci a dondolo all’ingresso, baci saffici
tridimensionali su mura e soffitti, tre bambolotti nudi appesi per
aria con un fiorellino nel culo, divani di velluto argentati con
schienali ovaloidi. Le sale sono due, quella del dance floor più
psichedelica, ha un bancone centrale preso d’assalto senza sosta.
Nell’altra, luci soffuse, circola qualche allenatore ancora
giovanile, un medico italiano, un vecchio marpione dell’est Europa
che prima dell’alba si esibisce in una danza di panza. C’ è
pochissima Cina, quasi solo le cameriere e i baristi palestrati col
ciuffo emo.

A un certo punto spunta Nadal, t-shirt bianca,
pantalone blu. Lo fermano tutti, in modo tranquillo. Ehi Rafa, ti fai
una foto con noi? Lui ha passato tutta la settimana al villaggio, nel
pomeriggio ha vinto l’oro del tennis contro il cileno Gonzalez,
ennesimo trionfo della sua stagione magica. Sorride, non rifiuta mai,
scherza coi più audaci. Poi sparisce nel privè, un’ala
defilata dove non c’è quasi nessuno. Rinuncia a buttarsi nella
mischia di corpi sudati che si strusciano, si perde tutto il
divertimento. Lui è una superstar planetaria come Kobe Bryant,
gente che sta sotto i riflettori 365 giorni all’anno. Più di
Phelps, che pure è l’uomo copertina di questi giochi e qua sta
sera non c’è. Non è tipo, il kid di Baltimora, anche se
la colonna sonora della nottata è quasi tutta hip hop d’oltre
oceano (Dr. Dre e Snoop Dogg, Tupac Shakur, Outkast, Nelly Furtado,
House of Pain, Mop, Naughty by Nature) e ci sono un sacco di atleti
americani, che da Atene in poi non possono più andare in giro
con i colori Usa addosso per motivi di sicurezza. Ma si vede proprio
che sono yankee, festeggiano come a un party della confraternita
Alpha Omega Alpha, sono loro a chiudere il locale alle sette del
mattino quando su Pechino il sole è già alto da un paio
d’ore.

Al bar c’era anche un tecnico italiano, assicura che i suoi
ragazzi son stati bravi, non sono mai usciti prima della finale, lui
invece sì. Eccome. I canottieri stavano fuori Pechino, reclusi
in albergo ma dicono di essersi divertiti lo stesso, più che
ad Atene. Confessano in realtà di esser stati al Gt Banana
qualche sera prima, un altra mega club a Jianguonmen. Avessero
dimorato al villaggio avrebbero potuto provare l’agghiacciante
discoteca allestita in loco dal Comitato organizzatore: un hangar
color topo con sedie della coca cola, alcol e sigarette rigorosamente
proibiti, pop anni ’90 fino a mezzanotte, massimo della trasgressione
un gruppetto folk cinese che ogni tanto suona dal vivo per quattro
gatti. Anche loro alla fine sarebbero scappati dalla finestra per
buttarsi nella vita notturna degli hutong, di Huo Hai, delle
disco-pub di Sanlitun. Come ragazzi qualunque a caccia di un po’ di
divertimento. [da il manifesto]

Posted in Pizi Wenxue.


[Rubrica!] Cazzate Olimpiche 6

Ahiahiahi.
Proprio mentre pensavo a fare una rubrica delle cazzate olimpiche personali, Severgnini, a proposito della finale di lotta, vinta dall’italiano
Minguzzi, mi ha stupito: La finale l’ho vista seduto di fianco al collega del
“Manifesto” – curioso, contento e incompetente quanto me. Volevo
suggerirgli un titolo – “Minguzzi lotta con noi!” – poi ho deciso
di tenermelo.
Per la cronaca:
era l’altro, il gatto o la volpe a seconda, mica io. E inoltre il titolo del
Manifesto al riguardo è stato:
non si astiene dalla
lotta
. Infine:
Severgnini l’ho incontrato alla mixed zone della scherma. Un inciso va fatto sulla "mixed zone", l’area dove si beccano atleti un secondo dopo la
loro gara. E’ molto interessante, devo dire la verità. E
insomma si aspettavano le italiane della scherma, che avevano perso
contro le russe, al termine di polemiche varie. Nel frattempo c’erano
le statunitensi che avevano battuto le ungheresi. I giornalist
italiani tutti in un angolo (probabilmente a parlare di involtini
primavera e strappone cinesi) io e il Seve lì a guardare ste ragazze che avevano appena vinto la semifinale. Io penso: ora alla più vicina le chiedo cosa
pensa della sconfitta delle superfavorite italiane. Faccio per
muovermi ma il Seve mi ha già bruciato. Esperienza.

A
proposito di mixed zone. Anche Crosetti ne parla, mettendo in luce il
punto di osservazione:
La cosiddetta "zona mista"
della piscina, dove si fanno le prime interviste al volo, è
una specie di osservatorio anatomico privilegiato. E in questi dieci
giorni abbiamo visto veramente di tutto, dalle mostruosità
muscolari del francese Bernard – chiaramente gonfiato in qualche
modo, perché in natura non possono svilupparsi forme del
genere.
Ma Crosetti, dove
guardi? E per altro quello del Manifesto che ha visto Minguzzi con
Seve, ha incrociato il francese in una notte di baldoria. Il giorno dopo ha detto:
“non mi sembrava così grosso”.

Se
sono grossi, l’importante è che abbiano velocità. Gaia
Qualcosa al proposito ha vissuto la sua esperienza ravvicinata con
Bolt, oro e record del mondo nei 100 metri, mica cazzi:
Io
c’ero. Quinta fila dello stadio olimpico, all’altezza della linea
d’arrivo, praticamente in braccio a Usain Bolt. In quei nove secondi
e sessantanove centesimi il cuore ha fatto in tempo a battermi tre
volte, ho sbattuto le ciglia, ho inspirato ed espirato e lui era già
là, avvolto dalla bandiera della Giamaica e dall’abbraccio
della leggenda. Io c’ero e non lo dico per tirarmela.

Gaia
scrive come fosse al bar con Pluto e l’amica del cuore. Anzi con il
suo collega di banco:
Io e il collega della Dpa, l’agenzia
di stampa tedesca, mio vicino di banco nel Nido, ci siamo guardati
senza dire una parola. Lui, ora che si è ripreso dallo choc,
ha mandato il suo dispaccio – Urgente: Bolt oro e record nei 100
metri – con un notevole ritardo. Ma sono certa che il suo capo lo ha
perdonato
.

Ho
visto infine un articolo interessante sul corriere on line, sul forum
della Rai alle Olimpiadi. Il moderatore dopo vari commenti contrari
alla tivù di stato, ha chiuso le trasmissioni così:
Ho
capito che rispondere alle invettive serve solo a scatenare ancor di
più la furia di alcuni. Quindi vi saluto e mi astengo
definitivamente da qualsiasi ulteriore post. So bene che anche questo
sarà per alcuni ulteriore motivo di polemica, ma in tutta
franchezza ho impegni più seri e importanti ad assolvere.
Porta i testimoni!

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[Olympics] Lin Super Dan trionfa, nonostante le Olimpiadi dei perdenti

Lin Dan ha vinto l’oro. Il giorno prima è stato celebrato…in anticipo.

In
Cina si dice che quando Lin Dan espresse il desiderio di diventare un
campione del badminton, il suo allenatore gli disse più o meno
così: «piazzati davanti a quel vetro e finché non
lo tiri giù a furia di smash non farti vedere da queste
parti». Il piccoletto, un po’ magro, un po’ basso, ma
determinato, non si è perso d’animo ed è diventato un
campione. Ha una faccia da schiaffi e un’aria da bulletto di
periferia, ma Lin Super Dan è ormai un idolo dello sport
cinese, capace di unire talento sportivo e capacità mediatica
da esperto di marketing. E stasera si giocherà la finale per
l’oro nel badminton, sport nel quale negli ultimi quattro anni è
diventato il numero uno in ragione di un rush finale durato
ventiquattro mesi, in cui ha vinto tutto: mondiali (due volte di
fila), giochi asiatici, World Grand Prix. Gli manca solo il primo
posto olimpico, anche per dimenticare quella figuraccia fatta ad
Atene nel 2004, eliminato al primo turno.

Nel
frattempo è diventato una stella con arroganza, ingordigia,
competitività, dicono i suoi detrattori, con velocità,
poesia e forza, sostengono i suoi fan. Super Dan non è uno che
passa inosservato. E se il badminton dalle nostre parti è un
oggetto misterioso quasi più del curling, per chi se lo
ricorda ancora, in Cina e in Asia in generale, è una
disciplina molto praticata. A suo modo il badminton è
considerato molto più di un’attività agonistica:
racchiude l’Asia in un campo simil tennis, con un volano che compie
volteggi densi di cadute improvvise o salti in alto, tra movimenti
frenetici, colpi secchi e giravolte da film di Hong Kong. Per i
cinesi è una sorta di ossessione sportiva, al pari del ping
pong e del basket. Romantico, popolare, elastico: asiatico.

A
Pechino, come in altre città del Dragone, ci giocano nei
parchi, per strada, anche di notte con sfide improvvisate sui
marciapiedi tra ragazzini, anziani, padri e madri e figli, nelle
palestre sconfinate di campi, circondati da tavoli di ping pong. E
come per il tennis da tavolo, alle Olimpiadi, la pressione è
al contrario: l’atleta cinese del badminton fa notizia quando perde,
non quando vince. E quando arriva una sconfitta, si incazza mica
male. Lin Dan è un McEnroe in miniatura, come hanno scritto
alcuni giornali statunitensi, per dare l’idea del suo temperamento,
talento e presenza mediatica. Per questo oltre ai suoi successi è
famoso per le sue urla di rabbia e per le racchette tirate
dappertutto. A gennaio di quest’anno la sua è volata, dopo una
serie di insulti, dalle parti del tecnico della Corea del Sud. Al
gesto è seguito un corpo a corpo fatto di paroloni e minacce:
li hanno dovuti separare e appena raggiunta la calma Lin Dan non ha
pensato neanche per un secondo a scusarsi. «Lui ha insultato me
e tutta la squadra cinese», ha dichiarato. Toccata sul
patriottismo, la Federazione Cinese di Badminton lo ha perdonato: «è
comprensibile la sua reazione – hanno detto – poiché è
stato provocato». Più controversa la lite con il suo
mister poco prima dell’inizio delle Olimpiadi, terminata con una
smentita di entrambi sull’accaduto e la richiesta di non rendere
troppo ansiolitica l’attesa. E Lin Dan è un personaggio da
copertina anche extrasportiva. Alle occidentali storie d’amore e nudi
in vasca, la Cina replica con la storia sentimentale tra l’atleta di
punta del badminton maschile e quello femminile: Xie Xingfang,
fidanzata di Lin, era anche la numero uno cinese, prima di perdere
proprio ieri la finale olimpica contro una connazionale. C’è
da credere che una dedica, in caso di vittoria del moroso, arriverà
proprio per l’ex regina del badminton locale (entrambi suggellarono
la nuova relazione vincendo i mondiali in Spagna nel 2006).

La
biografia di Lin racconta che a 5 anni, guardando un match di
badminton olimpico, il piccolo disse che sarebbe diventato un
campione a cinque cerchi. Poi prese la racchetta e, dopo aver
constatato che l’attrezzo del mestiere era più alto di lui,
non si diede per vinto e cominciò a picchiare come un fabbro
su quella pallina piumata che contraddistingue lo sport in cui
eccelle. Cresciuto sportivamente nell’esercito, come tanti altri
prodotti dei laboratori sportivi cinesi, la stella di Super Dan è
sbocciata solo post Olimpiadi di Atene del 2004. Prima del 2005 e
durante la sua gestazione come primadonna nazionale, Lin Dan appariva
come una via di mezzo tra uno sfigato cronico e un potenziale
campione dal dubbio futuro. Vittima di scherzi durante la sua vita
militare, sembrava il tipico arrivista che mai ce l’avrebbe fatta. E
invece, oggi a fine gara Lin Dan può permettersi i riti da
star, come un calciatore o uno dell’NBA, perché con quella
faccia da furbetto romantico, sa come fare entusiasmare le sue fan.
Tira al pubblico la sua maglietta e usa piroette di effetto per
rialzarsi dopo cadute a terra per colpire. Riempie le pagine del suo
blog di foto e atleticamente c’è, eccome. Nelle qualificazioni
per la finale olimpica ha sciorinato colpi e tecnica, velocità
e stoccate anche da terra, ridicolizzando i propri ansimanti
avversari. Funambolico, una sorta di brasiliano del badminton, ha
dimostrato anche di avere raggiunto una sorta di equilibrio tra la
sua foga agonistica e una sana educazione sportiva, olimpica. Per la
consacrazione, oggi ha un ultimo ostacolo: si chiama Lee Chong Wei,
un malese alla ricerca della prima medaglia d’oro in assoluto per il
suo paese. Per Super Dan, un altro vetro da tirare giù.

Le Olimpiadi dei perdenti

A
Pechino c’è anche chi vola via dal mare olimpico vittorioso,
per annusare le stelle dei perdenti. Succede in uno dei sinuosi e
storici hutong della capitale cinese, proprio nella serata che
precede la gara dei 100 metri e degli uomini più veloci del
mondo. All’evento si affianca una festa lenta e rilassata per la
strada stretta e bianca, circondata da tetti curvi, incisi da rilievi
e sguardi severi. Sono quelli che compaiono dai vetri delle tante
macchine della polizia, passate per capire cosa sia quell’accrocchio
di stranieri, cinesi, bongos, giocolieri e vecchietti. Ieri sera in
Xiao Jin Chang, viuzza di un hutong nei pressi del Tempio del Lama,
si sono celebrate le Olimpiadi dei perdenti, tra carne al barbecue,
birrette e medaglie di carta regalate ad ogni partecipante spontaneo.
Perdenti radunati per celebrare sconfitte, ma anche per non
rassegnarsi a vedere le Olimpiadi passare come un trattore sulla
vitalità e la socialità di strada della vecchia
Pechino. Mentre si celebrano le vittorie, la capitale sembra un po’
stranita, tra feste delle varie delegazioni straniere e annullamento
dell’ordinaria movida locale. Ed allora ci vuole la celebrazione di
sconfitte, per regalare un momento di vitalità inaspettato.
C’erano persone di tutti i tipi e da ogni paese. C’era anche chi,
giunta un’auto della polizia a chiedere cosa stesse succedendo, ha
risposto al serioso uomo in divisa: «vuoi un po’ di carne?»
Stranieri e cinesi, musica di sottofondo e abitanti dell’hutong che
piano piano sono usciti dalle proprie case e hanno partecipato al
banchetto mangereccio e ludico per la strada. Anche perché tra
un video (di disfatte sportive cinesi, giusto per rimarcare che si
può anche parlare delle proprie figuracce, non solo quelle
degli altri) e balletti improvvisati si è poi passati alla
pratica sportiva. Si fa per dire: simulazione dei cento metri con
qualche ora di anticipo, con un videogioco e via a partite sportive
in cui si è anche visto un padre cinese menarsi con il figlio.
Virtualmente si intende. E il figlio gliel’ha suonate, muovendosi
arzillo e rapido e alla faccia di Confucio. Le Olimpiadi dei perdenti
avevano anche un premio in palio, un po’ paradossale: un biglietto
per una gara olimpica, quella vera, dalle parti del Nido e del Cubo
d’Acqua, che nella sera dell’hutong sembravano su un’altra galassia.
Il biglietto lo ha vinto chi si è classificato più o
meno a metà nelle sfide virtuali. Il giusto mezzo, per
rimanere in tema. Una vecchietta abitante del quartiere, gonna blu e
calzette bianche, ha vinto il ticket magico: non se l’aspettava
davvero. E infine dallo stadio dei Lavoratori è arrivata la
notizia che ha riunito la via: l’Italia di calcio è stata
eliminata dall’Olimpiade, sconfitta. Non poteva essere altrimenti. [Da Il Manifesto]

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[Olympics] Il podio sfiorato della bionda speciale

In
un supermarket di Cleveland, alla vigilia di Natale del 1980 si
svolge una rapina. Una pallottola vagante uccide per sbaglio una
donna, Stella Walsh. Nel posto sbagliato al momento sbagliato, la
vittima non è però una donna comune: è un’atleta
che aveva frantumato qualcosa come 35 record del mondo nella sua
carriera agonistica, una stella dell’atletica. Nel 1932 e nel 1936,
alle Olimpiadi, era stata la donna più veloce del mondo.
L’autopsia dopo l’omicidio però svela un retroscena: Stella
Walsh è ermafrodita. E ancora: 1936 Olimpiadi naziste di
Berlino. Nel salto in lungo femminile Dora Ratjen si classifica
quarta, ma solo vent’anni dopo confessa: in realtà è un
uomo e dirà di essere stata spinta dai gerarchi nazisti a
gareggiare con le donne. Storie di uomini e donne, catapultate nello
strano universo sportivo mondiale.

Tra
gli anni 30 e oggi tanti casi simili, mentre ieri a Pechino, alla
luce del sole, Edinanci Fernandes da Silva, ermafrodita judoka
brasiliana, ha sfiorato uno storico bronzo, dopo aver battuto – prima
di essere eliminata – l’italiana Morico, già bronzo ad Atene.
Non è la prima partecipazione di Edinanci alle Olimpiadi,
anzi. E’ la quarta, perché aveva già partecipato ad
Atlanta a Sidney e ad Atene, dopo aver ottenuto il permesso dal Cio
di gareggiare. Non senza polemiche, specie con le avversarie battute.
Edinanci, veterana olimpica ormai, è arrivata a Pechino con il
titolo di campionessa dei giochi panamericani, dove ha trionfato nel
judo categoria 78 chili. E il sogno olimpico ieri, lo ha accarezzato
per alcune ore. Nata nel 1976 in una umile casa di Paraiba, ha
iniziato a gareggiare nel judo, come terapia e come rivincita. A
vent’anni ha ottenuto il certificato di femminilità, dopo
un’operazione: per lei si sono aperte le porte delle Olimpiadi. E con
esse la notorietà mondiale e le polemiche per la sua forza
fisica che costiruirebbe un’arma immensa, ma poco gradita.
L’argentina Briceno l’ha difesa, ma c’è anche chi non ha perso
tempo a polemizzare. L’australiana Natalie Jenkins, dopo aver perso
contro la brasiliana alle olimpiadi di Sidney, nella conferenza
stampa continuò a chiamare Edinanci ora “lei”, ora “lui”.
La judoka brasiliana anziché innervosirsi le rise in faccia,
mostrandole il certificato che attestava la sua sessualità e
ritornò a colorarsi i capelli biondi, come le piace fare
durante ogni competizione.

E
il tema della sessualità degli atleti alle Olimpiadi ha una
storia lunga: prima del 1968 in Messico, insospettiti da prestazioni
sfavillanti e tratti mascolini di atlete donne, specie dei paesi
dell’est sovietico, gli organizzatori facevano sfilare nudi i
sospetti per accertarne i particolari scabrosi. Dalle Olimpiadi
messicane si passò agli esami cromosomici, ma nella speranza
di chiarire le cose, la vicenda sprofondò in un gran casino:
Ewa Klobukowska, atleta polacca, nel 1967 fu bandita dalle gare
perché non passò il test, nonostante fosse sfilata nuda
davanti ai medici solo l’anno prima. L’anno dopo diventò
madre. Nel 1980 l’ostacolista spagnola Maria José Martinez
Perino scoprì, con sua sorpresa, di essere in realtà un
uomo. Era nata con il cromosoma Y, quello che dovrebbe determinare il
sesso maschile. Ma neanche lei lo sapeva.

Ad
Atlanta questi controversi test vennero sospesi, anche perché
tutte le pizzicate vennero riammesse, mentre nelle attuali Olimpiadi
di Pechino si assiste ad un ulteriore salto di qualità: è
stato messo in piedi un sex-determination laboratory. Il Cio vuole
essere certo «al cento per cento» che quelle donne-atlete
su cui si nutrono sospetti siano effettivamente donne. Il professore
cinese Tian Qinjie, ha spiegato il funzionamento del laboratorio:
«Gli atleti sospetti saranno dapprima valutati dal loro aspetto
esteriore da alcuni esperti, quindi saranno sottoposti a una serie di
quattro test, inclusi esami del sangue, degli ormoni, dei geni e dei
cromosomi. Il nostro obiettivo è ottenere risposte nella
maniera più scientifica possibile».

Oggi
però, contrariamente al passato, i transessuali che passano
dal genere maschile al femminile possono gareggiare nella nuova
categoria purché abbiano effettuato l’operazione da almeno due
anni. E i casi controversi nella storia dello sport non mancano. Il
fatto recente più tragico è quello dell’indiana Santhi
Soundarajan: vincitrice dell’oro ai giochi asiatici negli 800 metri,
nel dicembre 2006 in Qatar. Dopo essere corsa a casa a festeggiare,
arrivò l’inaspettata doccia fredda: non è una donna,
disse la prova genetica cui fu sottoposta. Secondo il Times of India
il test, condotto da un equipe di medici che includeva ginecologici,
endocrinologi, psicologi e uno specialista di medicina interna, aveva
stabilito che l’atleta
non
possedeva «le caratteristiche sessuali di una donna». Nel
1999 una giocatrice di calcio della nazionale indiana fu privata
della medaglia d’argento per lo stesso motivo. Nel settembre 2007
Santhi Soundarajan ha tentato il suicidio.

Yvonne
Buschbaum, bronzo nell’asta agli Europei del 1998 e del 2002, ha
fatto invece il passaggio contrario, decidendo di ritirarsi: «Mi
sento un uomo intrappolato nel corpo di una donna – ha dichiarato sul
suo sito internet – Sono consapevole del fatto che questo sia un
argomento controverso, non voglio nascondere nulla e voglio chiarire
che non mi sono mai dopata. Voglio solo ritrovare la mia serenità.
È normale essere diversi, sono felice di aver intrapreso
questa strada e che presto sarò in pace con me stessa». [da il manifesto]

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[Urumqi] Nello Xinjiang sotto controllo

Tra
Urumqi e Pechino ci sono tre mila e rotti chilometri. Tra la
quotidianità delle zone uigure del capoluogo dello Xinjiang e
le Olimpiadi cinesi molto di più. Le recenti esplosioni,
sebbene a chilometri di distanza da Urumqi, disegnano traiettorie
oblique negli sguardi dei passanti e in quelle dei poliziotti cinesi,
manganello alla mano, tesi a controllare ogni passaggio tra le vie.
Qui ogni tanto appoggiati qua e là addobbi floreali a indicare
i cinque cerchi olimpici, ma anche domenica sera durante la sfida Usa
contro la Cina del basket, la popolazione era per le strade, tra
mercati notturni e passeggiate, seduta sui muretti o a cena, senza
televisione. Le Olimpiadi sono distanti. Sono altri i fatti ad essere
vicini e a tratteggiare ombre e nervosismo a Urumqi.

Dopo
l’attentato di Kashgar – considerata dagli abitanti la vera capitale
morale dello Xinjiang – gli altri attacchi di domenica contro le
forze di polizia cinese a Kuqa, hanno riconsegnato al governo cinese
e alle popolazioni dello Xinjiang la paura di nuovi attentati. «Non
è chiaro», hanno reso noto le autorità, se i
nuovi attacchi abbiano qualche legame con quello che ha causato lo
scorso 4 agosto la morte di 16 poliziotti nella città di
Kashgar, smentendo così un collegamento diretto, ma
confermando di trovarsi di fronte ad una «organizzazione».
Tra i commando anche una ragazza di 15 anni, lasciata ferita – e in
mano della polizia cinese – dagli attentatori, a dipingere a tinte
forti lo scontro tra gli indipendentisti uiguri e le autorità
di Pechino. Lo Xinjiang, regione a maggioranza musulmana e abitata da
minoranze etniche, un frullato di lingue e abitudini, tra russi,
kazaki, uiguri e cinesi, confina con troppi stati (Kazakistan,
Kirghizistan, Tagikistan, Afghanistan, Pakistan e il Kashmir indiano)
e ha risorse energetiche fondamentali perché il Dragone la
perda d’occhio: Xinjiang e Tibet sono i due nervi scoperti del
Governo di Pechino. Urumqi poi, è da sempre la testa di ponte
della dominazione cinese in questa zona: un tempo città di
guarnigione per le truppe cinesi e le loro famiglie, oggi è il
capoluogo e centro amministrativo della regione autonoma: la vetrina
del modello di integrazione cinese in questa zona stretta tra
montagne e deserto (il Taklamakan, che in turco significa: puoi
entrarci, ma non uscirci).

E a Urumqi, quando l’ora segna le
sette del mattino, il cielo benché sia estate è ancora
ombrato, perché sarebbero le cinque: tra Pechino e l’antica
Luntai infatti ci sono due fusi orari, ma l’ora ufficiale è
quella cinese. C’è un aneddoto da queste parti: i kazaki
pascolano le pecore, gli uiguri le vendono e i cinesi han le
mangiano. Un antico adagio che dovrebbe sottolineare l’abilità
da venditori dei musulmani di Cina, ma che racchiude in sé la
controversa convivenza tra etnie diverse nella zona. I cinesi han,
una marea ormai, sono stati mandati dal governo nella regione del
Xinjiang: in alcuni casi hanno edificato intere città dal
nulla. In altri, la fanno da padroni. Il nocciolo del problema sta in
questa convivenza forzata che porta benessere, abitudini e sogni
sino-occidentali, a discapito della popolazione uigura, che da
maggioranza sembra destinata a diventare minoranza, le sue
tradizioni, la sua lingua, le sue abitudini. Una stretta rinforzata
da misure speciali: solo in questa regione si condannano a morte i
prigionieri politici.

Nella zona di Erdaoqiao la convivenza
forzata emerge netta: nell’antico bazar, ricreato ad hoc come luogo
di consumismo, i cinesi han sono intenti a vendere cianfrusaglie per
turisti (pochissimi in questa estate considerata eccessivamente
pericolosa da queste parti), nella via principale gli uiguri vivono
la propria quotidianità tra nan appena sfornato, barbecue
costantemente in funzione e prodotti di ogni tipo, tra binocoli e
erbe speciali per gli occhi. Una città vecchia simil Tangeri,
cui segue, da lì a poco, la parte più cinese: moderna,
palazzoni, Carrefour, macchine e locali. Come essere a Shanghai.
A.
è una ragazza di etnia han. È tornata nello Xinjiang,
dove è nata, dopo aver partecipato come una delle migliaia di
comparse, alla cerimonia inaugurale delle Olimpiadi («lì
sotto – ha detto tutta felice – ci abbiamo lasciato lacrime e
sudore»). È di passaggio a Urumqi, perché vive in
un paesino a una mezz’ora dal capoluogo: «c’è il
petrolio – dice – si vive bene. A Urumqi invece è meglio stare
attenti. Agli uiguri non piacciono i cinesi, rubano e sono
pericolosi». Stereotipo han, che si esprime su stereotipi
uiguri. Una pessima reputazione, confermata da alcuni abitanti di
Urumqi che, trasferiti a Pechino, si sono visti rifiutare, in alcuni
casi, la possibilità di affittare una casa. «In realtà
– spiega a bassa voce N., cantante di musica tradizionale uigura – la
nostra è una popolazione pacifica, cui piace mantenere vive le
proprie origini e la propria cultura. Purtroppo per noi la vita è
diventata complicata: basta un niente e finisci in prigione, i
controlli sono solo per noi. La gente vorrebbe vivere tranquilla e
invece è sotto pressione. Naturale che cresca un sentimento di
amarezza e di rabbia, talvolta». Sulle esplosioni e gli
attentati bocche cucite, troppo complicato spiegare a uno straniero
sofismi etnici. «Non c’è una soluzione giusta e una
sbagliata – incalza P. studente di sociologia a Pechino, ma nato a
Urumqi dove è tornato per le vacanze – è necessario
studiare molto per capire lo Xinjiang. Anche a livello universitario,
però, chi vuole effettuare studi su questa zona, prima o poi è
destinato a fermarsi: l’argomento non piace al Governo». E
all’estero gli uiguri sono considerati terroristi, mentre il Tibet
riscuote successo: «su questo c’è molta disinformazione
sulla nostra storia e sulla vita quotidiana da queste parti – irrompe
un ragazzo che chiede l’anonimato totale – e l’opera mediatica del
Dalai Lama in giro per il mondo. Per la Cina sia il Tibet sia lo
Xinjinag sono covi di terroristi, per l’Occidente, lo sono solo gli
uiguri. Saranno terribili ma gli ultimi attacchi sono stati solo
contro le forze di polizia cinese, non contro i civili».

Poi
più niente, perché l’argomento rischia di diventare
pericoloso. Basti ricordare, come supremo esempio, la vicenda di
Rebiya Kader – donna d’affari uigura, attivista politica,
imprigionata nel 1999 con l’accusa di avere passato segreti di stato
cinesi al marito negli Stati uniti – a dimostrazione che «chiunque
tenti di aiutare la nostra cultura, diventa subito un
terrorista».
Nel frattempo nel Parco del Popolo, in cui si
entra aprendo le borse e dopo controlli rigorosi – cominciano le
danze, tra strumenti musicali e balli tradizionali. S. è un
cuoco che ama cantare e tra una canzone e l’altra sforna pillole di
cultura uigura. Poi si fa serio: «noi vogliamo solo vivere in
libertà come abbiamo sempre fatto. Arresti, controlli, soprusi
creano solo un terreno di odio». Quando arriva la sera Urumqi
entra a pieno titolo nella sua sovranaturalità: strade colme
di ristoranti all’aperto e mercati in ogni via. Colori, frutta secca
e yogurt ghiacciati. Per entrare nella zona ci sono altri controlli e
poliziotti cinesi che improvvisano rincorse tra la folla. Gli sguardi
sono attenti, pur mirando su punti lontani del cielo: anche questa
sera la luna è sorta. [da il manifesto, 12-08-08]

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[Rubrica!] Cazzate Olimpiche 5

Di
ritorno dallo Xinjiang non posso che essere un po’ amareggiato dai
cinesi. Ma le Cazzate Olimpiche mi riportano subito in linea, senza
tentennamenti, fiero e orgoglioso di queste Olimpiadi cinesi (sto
scherzando). Allora partiamo dalla cerimonia olimpica. E’ venuto
fuori che la bambina cantava in playback, perché la vera voce
era di un’altra bambina che aveva i denti tipo Max Pezzali e non era
considerata una bella immagine per la Cina. Poi: i fuochi: pare
fossero registrati. In Italia si grida al tarocco, che fa ridere o
piangere, viste le trasmissioni televisive in voga in quel paese. Se
poi il confine tra reale e finzione si assottiglia credo sia un
merito (magari involontario o chissà): dove è la vita e
dove il sogno? Mica me lo chiedo io, altri ci hanno anche scritto su
dei capolavori eh (Calderon de La Barca, ad esempio).

Il
clou non può che essere per Leonard Coen sul quale non
posso dire tutto, ma ha chiamato la sua rubrica con un nome umile e questo gli fa onore: Ming. Basti la sua rubrica e il suo nuovo articolo dal
titolo: Buon appetito con pene e testicoli. Che lo
metterei tutto, ma mi sembra di fargli un favore, seppure minimo. Le
chicche: Le donne è meglio che evitino i cibi a base di
testicoli, perché ricchi di ormoni e questo potrebbe alla
lunga favorire la crescita della barba e la voce potrebbe assumere
toni più profondi, quasi virili.
Appurato
che il pene di un cane russo fa male alle pelle (e costa 160 yuan),
si scopre che:
al termine della cena, avvolto in un nastro
rosso, viene offerto un ossicino, che raffigura un pene di cane. Pare
porti fortuna e protegga dalla cattiva sorte
.
Esperienze culinarie cinesi. In miniera, diceva quel tale.

Crosetti (sempre Repubblica)
tratteggia poesia e siamo su un livello che non è neanche più
giornalismo. Per dire tutti a dire che ormai del nuoto e degli uomini
della scherma si scrive e si parla rispetto a flirt e scopate, più
che rendimento agonistico. Però poi tutti scrivono solo di
quello:
A volte la campionessa deve uscire dal reality in
cui l’abbiamo chiusa noi giornalisti perché il personaggio
glamour ci fa comodo, ci piace e si può strizzare come un
limone: poi, rimangono solo i semi e quelli si sputano
.
Crosetti: mi stai diventando cinese!
Laure Manaudou è
affogata nel suo stesso personaggio: dopo innumerevoli fotosequenze
con baci a fidanzati sempre diversi, e foto spinte, come si diceva
una volta.
Come si dice tuttora
al Ferraris dopo una rara prestazione insufficiente degli uomini con
la maglia più bella del mondo: a lavorare! Andate a lavorare!

L’amara
scoperta:
Invece Aldo Montano era un’Isola dei famosi in
forma di sciabolatore. Perfetto per lo schermo, abbronzato,
bellissimo, vincente (ad Atene), multifidanzato con maggiorate,
insomma un Manaudou al maschile, anche se il vero modello di tutti
questi ex atleti diventati perdenti soubrette d’avaspettacolo resta
David Beckham: il quale, almeno, a differenza di Laure e Aldo, ha
monetizzato il suo personaggio su scala mondiale. E ora sta in
California, mica a Livorno, senza offesa.
Crosetti:
che sei pure pisano?

Citazione
a tema, visto il poco tempo per le due, o più, domande.

Fu
dunque realtà, non sogno;

e
se fu realtà – e questo è altro e maggior imbroglio –

posso
alla prova chiamarlo un sogno?

Tanto
simile sono le glorie ai sogni,

che
quelle vere sembrano false,

e
quelle reputate false risultano vere?

Così
lieve è la distanza tra loro da non sapere

se
ciò che si vede e gode è cosa finta o reale?

Tanto
assomigliante appare la copia all’originale

che
sempre permane il dubbio?

 

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