Skip to content


Cartoline, richiesta e amicizie cono caratteristiche cinesi

Mi
pare fosse sulle Iene. La domanda era, chi è stato a compiere la
strage di piazza Fontana? Risposta: Al Quaeda.

Un
altro 12 dicembre è andato.

Post
di segnalazioni (sono influenzato e smadonnante, allegro, con brio).

Uno: Cartoline
dalla Cina per precaria.org: la
prima, la seconda, la terza. La quarta è nelle mani di chi gestisce il sito…in arrivo!

Poi: chi
conosce un potenziale traduttore arabo, in grado di tradurre a scelta tra italiano, spagnolo e francese? Meglio dall’italiano, ma insomma…se fosse un giornalista, disposto a mettersi in ballo ancora meglio, altrimenti va bene anche un semplice traduttore…(Sì voglio fare China-Files
in arabo
). Chi mi conosce, mi mandi la mail…:-)

Infine
un pezzo uscito oggi su Il Manifesto con cui sono convinto di essermi
fatto dei nuovi amici da queste parti. Tempo fa avrei fatto finta di niente. In questo momento – invece – mi sento insofferente, anche qui in Cina. Ottusità del potere. Baci.

— Formalmente incriminato Liu Xiaobo ——

Ci
sono molti modi per celebrare giornate internazionali. Quella dei
diritti umani del 10 dicembre, ad esempio, la Cina l’ha celebrata
incriminando formalmente per «incitamento alla sovversione
contro il potere dello Stato» Liu Xiaobo, uno dei firmatari
della Charta 08. Il documento lanciato da un gruppo di 300
intellettuali e cittadini comuni e sottoscritto da 10 mila cinesi –
pur essendo vietato e quasi introvabile nella rete – chiedeva
aperture democratiche, elezioni, poteri bilanciati ed esercito sotto
il controllo del governo, anziché del partito comunista. E’
stata la moglie, Liu Xia, a ricevere la notizia dell’incriminazione
del marito, mentre secondo l’avvocato di Liu, Shang Baojun, il
processo a suo carico potrebbe aprirsi già in soli dieci
giorni.

Tempo
fa, si diceva che Obama, durante la sua visita in Cina, avrebbe
parlato personalmente alle autorità cinesi del caso del
dissidente agli arresti, nonché di altri 11 persone
considerate rilevanti dall’amministrazione statunitense.
Evidentemente il fascino del Nobel per la Pace non ha avuto effetti a
Pechino: per Liu, professore universitario, adesso si aprono le porte
del processo e una potenziale condanna da 5 a 15 anni. Carceri cinesi
nelle quali il cinquantatreenne Liu ha già soggiornato: avendo
partecipato al movimento del 1989 fu condannato a due anni di
reclusione e nel 1996, dopo aver chiesto un’apertura dei negoziati
con il Dalai Lama e avere criticato il partito unico, fu condannato a
sei anni di rieducazione.

La
condanna appare certa, specie alla luce della parole del suo
avvocato: «Liu potrebbe evitare la prigione solo nel caso di
una clamorosa protesta da parte della comunità internazionale,
cosa evidentemente non ancora successa». «Solitamente i
dissidenti vengono condannati a 3 anni», afferma un osservatore
dello Human Rights Watch. Poco importano le prove: in questo caso
nelle mani degli inquirenti cinesi ci sarebbero il documento di
Charta 08 e sei articoli presi dal web, secondo quanto sostiene
l’avvocato di Liu Xiaobo. Abbastanza per una condanna esemplare, che
ha già suscitato reazioni in Cina.

Sarebbero
300 infatti i firmatari di una lettera in difesa di Liu, mentre molti
altri firmatari della Carta, 165 residenti in Cina, già quando
Liu venne arrestato, pochi giorni prima della pubblicazione di
Charta08, avevano diffuso un comunicato con un slogan chiaro: «se
Liu è colpevole, lo siamo anche noi». Ran Yunfei, un
blogger piuttosto noto del Sichuan, che firmò sia il manifesto
di Charta 08 sia la lettera successiva, ritiene che il tentativo del
governo di rendere silenziosi gli oppositori sia sempre più
forte, benché destinato a fallire: «come ogni processo
storico, anche quello di democratizzazione non può essere
fermato», ha detto in una intervista.

Sui
modi e i tempi dell’incriminazione di Liu Xiaobo– e della probabile
condanna – arriva la riflessione di Nicholas Bequelin di Human
Rights Watch Asia: «la sentenza potrebbe arrivare proprio in
occasione delle festività natalizie, in modo che l’attenzione
internazionale non possa essere pronta a reagire. Questo conferma la
rilevanza che sulla Cina ha l’opinione pubblica mondiale».

Quando
nel dicembre 2008 Charta 08 venne lanciata, la reazione delle
autorità fu fulminea. Solo a gennaio furono un centinaio le
persone fermate in 17 province. Secondo il China Human Rights
Defender
il numero sarebbe stato più alto perché
molti di coloro che subirono vessazioni non lo denunciarono, per il
timore di rendere pubblica la notizia. A favore della liberazione di
Liu si sarebbero già mossi alcuni intellettuali tra cui Salman
Rushdie e Wole Soyinka.

 

Posted in Pizi Wenxue.


[Cronache di un allenatore di calcio a Pechino] Biiru, psiche e charro

In
questi giorni in cui sento un po’ di fatica visti gli impegni di china-files, ovvero la ragione per cui sono in Cina, non so perché, ma ho
pensieri ricorrenti circa aspetti che potrei definire “psicologici”.
Non credo sia perché ho visto “Shrink” con un geniale
Kevin Spacey, né perché vedere massacrare a mazzate un
nazista nel film di Tarantino, mi ha fatto sì godere, ma non per questo
ho pensato di prendere a mazzate, per dire, il mio vicino di casa (che è
un delatore bastardo, in sintesi e mi ha regalato una serata di
nervosismo inverosimile).

Ci
sto pensando in generale, ma ovviamente tutto è nato dai
ragazzetti che alleno qui a Pechino.

Intanto
sull’essere adulto, portarsi dietro un bagaglio di esperienze, le più
lontane delle quali a volte, anzi sempre, sono difficili da fare
emergere, perché mediate dall’attualità, dal cervello
di uno che ha 35 anni e non più 8 o 9 anni, almeno
anagraficamente. Poi:
quello che uno pensa mentre fa una cosa, senza considerare il
rischio, ad esempio, di essere completamente frainteso. E ancora,
l’immane difficoltà a mettersi nella testa di un ipotetico
interlocutore, senza venirne influenzato in modo esagerato (ad
esempio ribaltando la propria idea di partenza). Roba
da Marzullo o da Preziosi Panucci nel Saloon del parcheggio
sotterraneo di Marassi. Il campo, non il carcere.

Ad
esempio: tra i ragazzini che alleno al lunedì c’è uno
di 12 anni circa, portiere, fortissimo. E’ alto, abbastanza roccioso,
ma i giapponesi per dire rimbalzano contro il campo, mica si fanno
male. E’ il più grande ed è amato perché avere
lui in porta significa vincere la partitella quasi sicuramente. Lui
gigioneggia, fa un po’ il fenomeno, ma è forte davvero. Lunedì scorso ha fatto
una parata e ha cominciato a fare capriole con il pallone sulla linea
di porta. Mi sono incazzato e ho decretato il calcio d’angolo. Così
la smetti di fare il pagliaccio
, gli ho detto. Ha beccato due gol
un po’ svogliatamente, poi su un cross che ha parato, ha
clamorosamente finto di essere stato calpestato da un avversario.

Impossibile
perché l’avversario proprio non l’ha neanche sfiorato. Ho visto benissimo. Infatti
il bambino incriminato ha subito urlato qualcosa come “non ti ho
fatto un cazzo bastardo testa di minchia!” (la traduzione è
mia ma questi parlano in giapponese…e mi chiamano qualcosa tipo
tichia, il loro modo di dire teacher, e io: mister, mi
dovete chiamare mister! Che poi se non sbaglio loro per maestro hanno
qualcosa come sensei che fa molto Karate Kid…A questo
proposito: se non mi hanno detto una cazzata “bacio” in giappo si
dice qualcosa come kisu
キス
chiaramente
dall’inglese kiss. Cioè non avevano una parola in
giapponese per dire bacio? Ancora più grave mi è
parsa la parola giapponese tratta dall’inglese biiru
ビール
ovvero
BIRRA!)

Cmq:
fatto sta che il portiere forte è steso a terra a faccia in
giù. Mi avvicino e gli chiedo se sta bene, lui si gira e
praticamente mi scoppia a piangere mentre gli tengo una mano sulla
spalla. Mi sono sentito morire. Da notare che il bambino che prima ha inveito, vista la scena è tornato sui suoi passi, ha guardato il portiere e gli ha chiesto scusa. Poi ha guardato me, come a dire: però hai visto anche tu che non gli ho fatto una fava.

Io però ero da un’altra parte. Perché chiaramente ho rivisto
tutto, perché da quando l’ho rimproverato, fino alle parate svogliate, ai goal che ha
preso, fino al finto infortunio, in tutto saranno passati tre minuti.
L’ho incoraggiato, dicendogli che non aveva niente, ma ero
sinceramente imbarazzato.

Allora
mentre ero sul mini bus con cui li riaccompagnamo a casa, mi sono rivisto tutti gli allenamenti e le partite e mi ha preso il
panico. E ho iniziato a pensare a ste cose psicologiche. Poi ho visto
Arrancame la Vida (sì
fa un freddo dell’orso e si consumano una marea di dvd qui a Pechino,
nonché le mitiche lasagne di Annie’s) e mi sono strippato coi
modi sudamericani di dire certe cose. Tipo
charro. E per un po’ ho fatto semplicemente finta di niente. E la locandina del film è per M(k).

Posted in Pizi Wenxue.


[Cronache di un allenatore di calcio a Pechino] 放松, tre pappine e vuoti

In
tutto questo, due settimane fa ero a Hong Kong: impossibile da
descrivere, ma sono tornato a Pechino, come quando tornavo a
Voltaggio dopo essere stato…che ne so a Genova (nella foto una
protesta, incredibile, una protesta! fuori da una banca a Hong Kong
Island…).

Poi:
il momento più divertente dell’allenamento dei pischelli è
quando si sta per cominciare la partitella. Una delle due squadre
deve scegliere chi tra i giocatori va per primo in porta, perché di portero ne abbiamo
solo uno, fortissimo, tra l’altro. Fanno una specie di miscela cino
giapponese, ovvero una morra: urlano per circa tre minuti scandendo
numeri e indicandoli con la mano. Ovviamente a tutto volume. Poi finiscono, mi guardano e mi
fanno: chi va in porta?

Oppure:
quando mi fanno incazzare come uno Sculli qualunque, o gli faccio
fare qualche giro di campo o se ne stanno 5 minuti a bordo campo. A
uno gli dico: hai rotto il belino, ora ti fai dieci giri di campo. E
lui: di corsa? E io: si. E lui: che bello!

A
un altro: stai fuori 5 minuti. Lui, ok. Poi mi giro e non lo trovo.
Era seduto al bancone del bar a mangiare patatine fritte.

Comunque,
un week end trascendentale di calcio.

Tutto
è cominciato sabato mattina. La scuola calcio per cui
alleno i pischelli ha anche una squadra di giovanotti (si fa per
dire) che milita nella seria A del campionato amatoriale di Pechino.
Ultimi in classifica, dopo una serie di batoste inenarrabili, mi
hanno chiesto di fargli da mister. Ultimi risultati deprimenti, tipo 1-8, 0-5 e così via,
gruppo un po’ sfasciato e con un paio di cinesi fortissimi ma che
amano piazzare cazzotti in faccia ai giapponesi, quando li hanno come
avversari. Ci sono anche alcuni spagnoli e due catalani, un tibetano che chiamo simpaticamente Dalai Lama e il resto italianos. Il mio personale 4312 ha portato la squadra fino a
10 minuti dalla fine sul 2-2 (dopo sontuosa rimonta dallo 0-2), poi ahimè è arrivato il
golletto della sconfitta, grazie a un cross che il nostro portiere ha
valutato male (senza contare che, onestamente, è alto come una
lattina di coca cola e che il primo goal l’abbiamo preso nello stesso modo e le bestemmie non si contavano tanto che un cinese era morto dal ridere a vedermi smadonnare con tanto di occhiali a specchio Ballardini style). 3-2 ma con onore, direi. Ai ragazzi devo fare solo i complimenti, ottimi movimenti, cuore e grinta. Peccato che per molti di loro il calcio sia un mistero senza fine. Avrebbero più probabilità di fare sei all’enalotto che un passaggio corretto.

In
ogni caso, una sola imbriacatura in trattoria, il mio
personale pre partita con i ragazzi, non è abbastanza perché
la squadra esprima già il mio credo calcistico (di chiara
scogliana memoria: il
presidente non esiste, la squadra non esiste e la società non
esiste, ma nella maniera più assoluta: esiste solo tifoseria e
tecnico
.)

Sabato
sera
: apoteosi. In streaming alle 4 di notte, tutto il derby
goduto gol per gol, palo per palo, traversa per traversa, scullate
per scullate, stecca per stecca. Come diceva qualcuno: se una squadra
gioca meglio, corre il doppio e picchia anche di più il
risultato non può che essere uno: asfaltati, 3-0 a futura
memoria. O silenzio, fate vobis.

Ancora
ebbro di derby, dopo circa due ore e mezza di sonno, domenica
mattina
è toccato ai pischelli. Un college pechinese molto
british, che mi pareva di essere in un film in costume, ha invitato
la nostra squadra per un’amichevole. Hanno giocato prima i piccoli,
allenati dall’altro mister e poi i miei, classe 98 e 99.

I
nostri erano un po’ emozionati, minchia eravamo in un posto che
sembrava la scuola di Harry Potter. Su per le scale c’erano le foto
di questo college: trofei, tutti belli, slanciati, vincenti. Abbiamo
cominciato in Japan Style: tutti giappo. E ai simpatici laowai, tutti
infighettati con magliette colorate, noi: neri, sono arrivate le
mazzate. Tanto che a un certo punto ho iniziato a mettere dentro gli
altri, sennò cioè che due palle. 10-3. Da notare la
prestazione di un piccoletto coreano, già soprannominato
Romario delle Coree. Ha 10 anni e la pancetta. Culo all’infuori,
sornione fino a rasentare il sonno. Ma non sbaglia un colpo: 3 pere
il suo personale bottino solo perché poi l’ho piazzato più
indietro. Anche per farlo sudare un minimo.

Poi:
il vuoto cosmico. Ci vuole un’altra vita.

 

Posted in Pizi Wenxue.


Pechino plesente

 

 

 

 

 

 

 

E
fra 3 (tre) ore i pischelli al torneo…

Posted in Pizi Wenxue.


[Cronache di un allenatore di calcio a Pechino] Foto! Belina II e hutong di neve

In
attesa di Obamao:

La
Belina II sotto casa e innevata e nell’hutong con cagnaro dell’esercito (60 yuan (6 euro) usato.
Un affare: in pratica è come avere un sacco a pelo intorno e
si appare giganti).

 

 

 

 

Posted in Pizi Wenxue.


[Cronache di un allenatore di calcio a Pechino] Tecnica, lucchetti e scale armoniche

Per
dire dei cinesi e la casa, allucinante.

Prima:
a me la parte dell’allenamento che è sempre piaciuta di più
è la parte tecnica. Per questo gli allenamenti che faccio sono
tutti incentrati su di lei, la boccia: cura, controllo, stop,
passaggio, finte, dribbling, palleggio, appoggio, lancio, tiro. Tutto
dipende dal piede, vero, ma anche dai movimenti, dal corpo, alzare
sempre la testa, non guardarsi i piedi: rendere naturale quello che
all’inizio fai pensando. I primi dieci minuti dell’allenamento li
chiamo: anarchy moment. Inutile stare lì a menarsela:
gli faccio prendere il pallone e: fate quello che volete. Questi
arrivano da una giornata a scuola massacrante, devono pure sfogarsi!

Con
alcuni facciamo qualche dribbling, altri si sono intrippati con il
tiro a rientrare. Oppure sto lì, mi faccio due palleggi e mi
assicuro che: non si ammazzino a coppini, non seghino i pali delle
porte, non prenda fuoco niente e che nessuno sparisca. A volte
giochiamo a prendere la traversa: in un campetto piccolo dico ancora
la mia! Del resto io non ho mai avuto voglia di correre, quindi le
corsette e gli scatti con cui inizia l’allenamento, servono solo a
fargli tirare altre mazzate tra loro in libertà.

Poi
si prende la boccia. E tutto ha inizio.

Alla
fine invece delirio, perché questi devono salire tutti su
alcuni pullman e ne manca sempre qualcuno. L’altra volta ho scoperto
un segreto recondito: ne manca sempre uno. “Si nasconde, gioca
così”, mi è stato detto.

Poi:
la mia casa pechinese. Dove sto mi piace: caldo, accogliente, piano piano si trasforma. Ci sto bene, nonostante alcune disavventure avute nell’ultimo anno. Le ultime riguardano un rapporto poco chiaro con la
serratura della maledetta porta. Tempo fa ricevetti visite mentre ero
in Italia: si accontentarono di una chiavetta usb e alcuni cd dati.
Chissà cosa penserebbero se ora trovassero tutti gli schemini
degli esercizietti per gli allenamenti. Cmq: da quella volta la porta
ha cominciato a fare le bizze. Due sabati fa: chiave spaccata dentro.
Sabato sera, alle 20, che tipo mentre stai per infilare la chiave
pensi: che figata che con sto freddo maledetto e sto tanfo che c’è
in corridoio, ora entro IN CASA. Invece. Bestemmie, chiamo i padroni
di casa, niente non rispondono.

Con
me, la fortuna aiuta gli audaci, del resto, è presente un’intelligenza superiore: mi fa notare una
scritta incomprensibile su un adesivo attaccato sulla porta, con
scritto 24 vicino ad altre 24. Che civiltà quella cinese,
penso! Subito dopo, penso: si ma ora come glielo spiego. Allora
chiamo la mia insegnante e le dico: “per favore, chiami questi e le
dici di venirmi ad aprire la porta, serratura, chiave rotta, casino,
ecc?” (questa roba sinceramente non so manco ora come dirla). Lei
dopo poco mi richiama: “sono 150 kuai”, mi dice. Molto cinese. E
io: “per favore, chiami questi e gli dici di venirmi ad aprire la
porta, serratura, chiave rotta, casino, ecc?”. “Okle”.

Cammino,
avanti e indietro nel corridoio. Il vicino ha indubitabilmente
festeggiato il sabato sera con pesce di scolo di acqua di hutong del
1912 e Cavolo Imperiale con Aceto della dinastia dei Ming e Soia del
tardo periodo Tang.

Mi
richiama la laoshi: “arrivano tra venti minuti”.
Dopo quasi un’ora esco: strade, macchine, clacson, sirene, rincorse
di scracchi, errrrrre infinite al telefono: e poi ci sono io, davanti
alla porta del mio palazzo a sfumazzare guardando l’orizzonte e
vedendo solo morte e devastazione, porte sventrate, gente in strada
che si attacca a suon di chiavi inglesi e serrature di metallo
sofisticato.

Arrivano
due in vespa: sono loro, i tecnici. O scassinatori: va bene uguale.
Hanno le mascherine. Vabbè. Però è vero: oggi
ero in ufficio ed erano tutti con le mascherine. Mi sentivo in colpa,
non so, come fossi un untore. I due scendono dal vespino. Hanno una
piccola chiave in mano. Scendono e fanno per aprire il baule della
vespa. Io sto già risalendo le scale, solo che. Non si apre.
Il loro minchiosissimo baule non si apre. La chiave non gira, loro si
guardano, mani sui fianchi, si guardano e guardano me. Io sono in
fissa sul pezzo di chiave che mi è rimasto in mano. Questi
dovrebbero farmi entrare in casa.

Prendono,
non so da dove, una pinza gigantesca e cominciano a girare la chiave.
Niente. Mi guardano, li guardo. Prendono la pinza e la sparano contro
il baule. Si apre. Prendono gli attrezzi e salgono dietro di me.
Giunti al piano mi fermo, li guardo, mi guardano, gli offro una
stizza. Ora ci siamo.

La
foto, grazie L., e altre, le trovate qui.

Posted in Pizi Wenxue.


[Cronache di un allenatore di calcio a Pechino] Trofei, visioni e magie

Update fotografico (lunedì 9 anzi martedì 10, ormai, qui). Ora venite a dirmi che è artificiale e che la gente non esce con il pigiama…

Ho anche una bici nuova: cioè
usata, 180 yuan, cinesissima, pesante come la morte, ruote
incredibilmente grandi, uno spasso. Belina II il nome.

Poi:
allenare bambini a giocare a calcio, mi ha sviluppato ragionamenti
educativi non da poco, ci vorrebbe il mio socio! E anche sul calcio
come lo intendo io, come forma di gioco per le persone normali, di
arte per chi il calcio lo ha nelle vene. E non si tratta solo di
colpire il pallone, ma di vedere il calcio. Secondo me ho un
piccoletto che questa cosa la sa. Ce ne sono alcuni più forti,
scattanti, con una buona tecnica se allenati bene, ma non vedono il
calcio. Vedono il colpo, che è un’altra cosa.

Questo
bambino invece, è giapponese, quando calcia il pallone sta già
vedendo quello che dovrebbe succedere. L’ho schierato in difesa, una
sorta di regista difensivo. Di seguito la sua piccola storia in una
partita di calcio.

Più
in generale, dopo qualche settimana di allenamento, la squadretta che
alleno ha ottenuto il primo trofeo ad un torneo per scuole calcio di
Pechino, sconfiggendo nella finalina, terzo quarto posto, gli
acerrimi rivali del Beijing Sport, accozzaglia di laowai e bambinetti
biondi, tutti mascherati da calciatori veri, con comportamenti
ridicoli da supercampioni a rimorchio (lamentele con arbitro,
sceneggiate sui falli, ecc). Gironcino di qualificazione con due
vittorie (nette: 5-0 e 3-1) e una sconfitta (contro quelli che poi si
sarebbero qualificati secondi, 4-1). Infine semifinale disastrosa
contro bambini cinesi che sostenevano di avere 12 anni. Peccato che
erano alti come me. 8-0 pesantissimo, ma i miei arrivavano alla loro
cintola. Il mister di questi, un cinese tutto incazzato, ad uno dei
suoi giocatori, dopo averlo sostituito, gli ha tirato anche un calcio
in culo. Non con simpatia, io ero allibito. Poi hanno vinto il torneo
eh.

In
finale l’atmosfera è elettrica, un botto di gente a vedere,
genitori trepidanti, bambini tesi: minchia una finale, la prima della
loro vita! Infatti dopo pochi minuti siamo sotto: 0-1. Proprio quando
mi accingevo a fare le sostituzioni, che giocano tutti. Però
belin in finale mettere una pippa…mi girano, però insomma.
Sostituisco. Soffriamo, ma un contropiede ci regala il gol del
pareggio. Rapido scambio e conclusione: rete! Ci chiudiamo a riccio:
lasciamo davanti il più forte, sulla sinistra Akayoma, altro
giapponese agile e veloce. Dietro Taiga: quello che vede il calcio.
Chiusi a riccio e ripartenza a farfalla, in pieno Scoglio style. Che
squadra!

Quelli
pressano, cazzo vanno come delle frecce. Mi giro e i genitori mi
sembrano dei mostri: biondi, palestrati, agili, urlano con quel cazzo
di inglese perfetto e tutto arrotato. Essi vivono. Cerco di
concentrarmi sulla partita. La cosa bella è che evidente che
io parlo, loro fanno di si con la testa e poi fanno quello che
vogliono. Ma è giusto così, ci mancherebbe altro
sinceramente. Cmq: palla nella nostra area. Taiga rinvia e scatta. Io
penso: dove cazzo va?

E’
che lui ha già visto che l’ariano che stopperò il
pallone, lo farà male, la palla lo supererà. E Taiga è
lì: stop, dribbling di interno, un altro d’esterno. Poi ci
sono lui, il portiere e la rete. Il portiere però è
gigante, sembra coprire tutta la porta. Io in un nanosecondo penso,
lo scarterei. Invece Taiga lo fa uscire e con un piatto semplice
semplice lo scherza da campione! 2-1.

Manco
con il Genoa: comincio a menarla all’arbitro. Uei’, oh, tu, ohi,
quanto cazzo manca. Mi dice 30 secondi. Io lo guardo malissimo.
Angolo per loro: palla che passa leggera e colpisce il palo. Gol.
2-2. Non posso bestemmiare, perché alcuni bambini parlano in
italiano, perché i boss lì sono italiani, insomma, non
posso. Vicino a me l’altro allenatore della scuola calcio che mi
dice: manco con il Lanciano soffro così!

Eh.
Extra time. Noi tesi, loro felici: altri 5 minuti di calcio. Corrono, si menano, con l’arbitro che cerca di riportare tutti all’ordine. Un bel casino, lo so bene ad ogni inizio di allenamento. Si riparte, ma
belin quelli ci mettono sotto. Di brutto. Entra un altro altissimo, l’allenatore
avversario mi guarda e sorride. Un altro mostro.

Poi c’è un
fallo per noi.

Il
nostro attaccante si muove a destra e io in giappocinoitaliangenovese
gli urlo di piazzarsi sul dischetto, su quel cazzo di dischetto. Lui
fa si con la testa, ma sta fermo. Sta per partire il calcio del suo
compagno. Il nostro attaccante si muove, la palla si alza, lui
raggiunge l’area e non so come: di testa la piazza dentro. Di testa, che roba!.

Poi
premiazione, con quel bastardo dell’altro mister che fornisce una bottiglia di birra
in esplosione a un bambino che tutto felice mi fa la doccia. Gran
figata questa esperienza.

Posted in Pizi Wenxue.


[Cronache di un allenatore di calcio a Pechino] Proteste, cortei e nevicate

Da
poco più di una settimana a Pechino, mi pare di esserci da un
mese tante le cose fatte, da fare, interviste (anche con una super top model cinese, di cui racconterò…), cose, eccetera, ma
l’ultimo week end ha riservato le sorprese più grandi.

Giornate infinite e sorprendenti con problemi da jet lag aumentati dal fatto che il Genoa gioca sempre in notturna, quando qui sono circa le 4 di notte.

Anyway: venerdì sera alcuni
lavoratori cinesi hanno fatto una cosa mai vista ad oggi a Pechino:
striscione in inglese e cinese e protesta nella zona della movida
pechinese, contro il proprio boss che non gli pagava lo stipendio.
Incredibile, ho anche foto e altre info, a breve…:-)

Sabato
invece ho partecipato al mio primo corteo in Cina: in tre anni niente
male come media. Merito del Beijing F.C. campione di Cina per la
prima volta. All’uscito dello stadio, corteo spontaneo. Strano,
trovarsi in bicicletta a marciare coi cinesi circondati da polizia,
esercito, corpi speciali. Obiettivo Tian’anmen. Vado da un poliziotto
e gli dico: andiamo in Tian’anmen? Quello mi guarda, con un sorriso
strano. No, è la risposta. A breve: video!

Infine
stamattina: nevica (nella foto: cosa vedo da casa mia).

Ma
la specialità del week end è stato il mio esordio in un
torneo di calcio coi pischelli che alleno. Età 6-7 anni, tutti
asiatici ma nessuno con famiglie composte da genitori della stessa
nazionalità. Così mi ritrovo a parlare ad alcuni in
italiano, ad altri in inglese, ad altri in cinese, ad altri nella
lingua incomprensibile degli urli e dei gesti. Parlare è una
parola grossa, diciamo verbi e frasi monche da campo di calcio.
Peraltro inascoltate. Sono incontenibili sti bambini anche perché
chiunque si ritrovi nel sistema educativo cinese finisce per fare
vita da cyborg. E così un paio d’ore di libertà su un
campo di calcio trasformano tutti i cyborg in teppisti paura.

Comunque.
Esordio contro una squadra di cinesi con un mister tutto urlante e
scracchiante e – complice l’assenza di 3 bambini dispersi nei meandri
del traffico pechinese – è arrivata sonora la sconfitta, con
una squadra in cui giocava un ragazzino preso tra il pubblico. 4-0 e
morale a terra.

Nella
seconda partita però, i ragazzi hanno tirato fuori gli
artigli, complice l’arrivo dei tre ed esilaranti scene di vestizione
a bordo campo (ormai faccio i lacci alle scarpe alla velocità
della luce). Un 1-1 di grande intensità, dovuta ad un inizio
in salita, perché i tre ritardatari si sono seduti a bordo
campo e sono entrati solo dopo: prima gioca chi arriva puntuale, mi
pare giusto! Poi il meritato pareggio.

Spettacolo
a fine partita: il bambino autore del gol, viene da me e mi urla
tutto allegro: ho segnato!

Intenso
il clima all’Olè, scuola calcio messa in piedi da italiani
appassionati, di cui ho già scritto
, con mille bambini e
genitori. A parte qualche straniero, abbastanza passabile
l’atteggiamento degli adulti. Un cinese, padre di un bambino che
alleno, invece, è una sussa piuttosto accesa. Durante la
partita chiama in continuazione il figlio, il quale, anziché
guardare il pallone, guarda il padre a bordo campo. Dovrò
battezzarlo il tio, in fretta.

Nella
prossima puntata: allenamenti!

Posted in Pizi Wenxue.


[pre partenza] Giostra

Genoa-
Inter 0-5

Prima
di partire ho potuto riassaporare l’ebbrezza che non provavo dall’82 mi pare: una bella giostra.

Con una differenza: Genoa-Udinese
0-5…c’era Zico eh tutti ad appaludire…

Ieri
sera invece ho dovuto litigare con uno che continuava a dire "belin
che culo che hanno", senza contare lo sbrocco contro l’ennesimo
"uh uh" a Balotteli.

Senza contare una signora che mentre si andava alle macchine inveiva contro una tipa in auto, probabilmente una interista che sbeffeggiava i grifoni tristi e cupi e storti, urlandole "troia".

Mi sono incuriosito, anche perché per un attimo sembrava potesse scoppiare il pieno. Al che le ho detto: "signora, insomma che imbarbarimento è? Da lei poi…da una donna, mi pare che doriana sia sufficiente come insulto, perché deve usare quelle parole", chiedo.

Lei mi guarda e mi fa: "perché è una troia".

Come se chiedi, "ma perché devi ululare a Balottelli?": "perché è negro".

Sono le verità della Videocracy.

Contro
Zico fu una giostra allegra.

Ieri
una giostra triste con la sensazione che qualcosa si sia rotto (e non parlo di dati tecnici, che della partita non ce ne frega un cazzo: doria doria vaffanculo!)

Alla prossima, da Pechino.

Posted in Pizi Wenxue.


Insofferenti

Da
ieri sera, pensavo a stamattina. E’ una sentenza d’appello, non se la
fila nessuno, ho pensato. Ho rivisto parecchie facce e momenti, una
stanza di Genova, i video, le foto, le parole, le chiacchiere, chi ci
ha fatto il grano, chi la faccia, chi un pianto, una bestemmia, un
urlo.

Theres
so many different worlds
So many differents suns
And we have
just one world
But we live in different ones

Poi,
per fortuna esiste il mio socio che ha trovato, lui, le parole
giuste. Trovate
il post qui
, ma lo ripropongo anche io, per intero:

E’
il discrimine totale e definitivo, quello che ci offre ogni evento,
ogni storia, ogni narrazione, ogni situazione. Il più facile e
immediato, quello che non manca mai, il crinale lungo il quale
scegliere da che parte stare. Neanche la voga del postmodernismo è
riuscita a scalfire il mito di una divisione perfetta tra gli uni e
gli altri, alimentata da secoli e secoli di semplificazione. Io, da
sempre, fin da quando ero piccino, ho sempre preferito i cattivi. Non
ci sono cazzi. Mi sono sempre piaciuti Dillinger, Bonnot,
Vallanzasca, gli Indiani e financo Cattivik. Perché? Perché
i buoni sono ipocriti e parteggiare per loro è una forma di
ipocrisia ancora più viscida, fatta di menzogne taciute anche
a sé stessi e di facili schieramenti, perché i buoni
vincono sempre anche quando non lo meritano, perché i buoni
incarnano ciò che è giusto e naturale che sia giusto,
sono l’autoassoluzione dalla propria stronzaggine e della propria
intima miseria egoistica. Sono un insopportabile assioma, una
tautologia vivente (almeno nelle narrazioni), uno schiaffo alla
realtà. Invece stare con i cattivi significa cercare di capire
la verità, di capire che cosa succede, di non fermarsi alla
facile apparenza e al conformismo di ciò che è giusto o
di ciò che è sbagliato secondo "chiunque".
Stare con i cattivi significa cercare, pensare, decidere.
Anche
Genova è una storia con i buoni e i cattivi, anzi con tanti
buoni e tanti cattivi, a seconda del punto di vista di chi vi
racconta cosa è successo. Così ci sono i buoni per
antonomasia, i poliziotti, le forze dell’ordine, quelli che ci
proteggono, e i cattivi per definizione (almeno in questi decenni di
bulimia dei consumi e di anoressia dei cervelli), i manifestanti,
quelli che fanno casino. Ma anche spostando un po’ più in là
l’asticella della nostra narrazione, ci sono sempre i buoni, i
manifestanti pacifici, e i cattivi, i manifestanti cosiddetti
violenti. Quindi, anche spostandosi più in là possibile
con il punto di vista, rimane sempre bello limpido il discrimine: da
un lato i buoni e dall’altro i cattivi, i violenti.
Ora:
tralascerò una disanima sul termine violenza, una parola che
non digerisco più. Intendiamoci: capisco perfettamente la sua
denotazione, ma non riesco più ad accettarla come parte del
mio lessico da quando è diventata un connotato di giustizia,
da quando ciò che è violento è necessariamente
sbagliato, come se avesse intrinsecamente un valore morale, come se
violento fosse un aggettivo etico e non qualificativo di una
situazione. Feroce è morale, forte è morale, prepotente
è morale, ma violento in sé non è né
buono né cattivo. Almeno fino a quando non hanno deciso di
sciacquarci il cervello in un Arno fatto di equidistanze e privazione
della capacità di prendere posizione, di decidere in base a
ciò che viviamo e che vediamo intorno a noi.
La sentenza di
appello per i fatti avvenuti nelle strade di Genova durante il G8 del
2001, nell’arco del famoso processo ai 25 – e se non sapete di che
parlo fate una bella ricerchina in rete che non ne posso più
di riassumere gli eventi – ha sancito una volta di più che
quel discrimine non si può valicare se non a costo di gran
parte della propria vita. I buoni, via via nei mesi, sono stati tutti
assolti: chi pienamente perché santo subito (De Gennaro, l’ex
capo della polizia, e compagnia), chi parzialmente con sentenze che
assomigliano più a strigliate che non a condanne (Diaz e
Bolzaneto), chi di straforo per culo o per inciso (mancanza di prove
o risarcimento per aver subito una carica studiata a tavolino per
scatenare il delirio a Genova come nel caso delle Tute Bianche in via
Tolemaide, anche se su questo evento e sulla gestione giudiziaria
della cosa si dovrebbe parlare a lungo per mille motivi, fatto salvo
che sono contento per coloro che sono stati assolti). I cattivi
pagano pegno: 10-15 anni a testa, zitti e muti. Con buona pace della
storia e della ricerca della verità. Tra dieci e quindici
anni. Pensiamoci ogni tanto alle cose che leggiamo o quelle che
sentiamo al telegiornale.
I moralisti diranno: bene, se lo
meritano. I loro compagni diranno: male, Stato bastardo e assassino.
Io – pur condividendo questa seconda posizione diciamo in termini
formali e ideologici – voglio ragionare con chi mi legge. La decina
di persone che è stata condannata è il capro espiatorio
di un evento storico che nessuno vuole guardare in faccia. Anche a
distanza di anni, i libri scritti su Genova – sia da ex poliziotti
che da (ex) compagni – non vengono comprati, non vengono letti, non
vengono discussi. Tutti sono lì a nascondersi quello che è
avvenuto, quello che hanno provato, la voglia di violenza che si è
scatenata (o che qualcuno ha voluto scatenare, su questo non saremo
mai d’accordo e forse non è possibile esserlo) in noi e
intorno a noi. Così una decina di persone che ha causato
qualche migliaio di euro di danni a un’altra decina di persone viene
condannata a più anni che non qualcuno che ha ucciso (ucciso =
ammazzato = morto) una persona, o di qualcuno che a truffato decine
di migliaia di euro a tutti i cittadini italiani, o che ha aggredito
e violato la dignità e l’incolumità fisica di una
persona (uno stupratore ad esempio). 15 anni. Sono molti da passare
in carcere per aver rotto dieci vetrine. Ma una pena più lieve
non sarebbe stata abbastanza per i cattivi. E se i cattivi non sono
più cattivi, i buoni non possono essere i buoni, e chi ci
capisce più nulla? Non si può fare, converrete con me.
Ci toccherebbe cercare di capire quello che è successo, la
complessità del mondo in cui viviamo. Ma non è cosa per
poveri esseri umani italiani del terzo millennio.
Rimane la
rabbia. Rimane la frustrazione per non essere in grado di spiegare
quanto sia semplice e brutale la situazione, quanto sia inevitabile e
quanto nessuno voglia né conoscere quello che è
avvenuto in quei giorni, né porsi il problema di che cosa
significhi la parola giustizia o la parola violenza. Rimane l’istinto
alla violenza. Rimane ciò che ci circonda. Rimane il disgusto.
Rimane il discrimine e la possibilità di scegliere se stare da
un lato o dall’altro del crinale. Io non ho cambiato idea.
Rimane
la consapevolezza che è giunto il momento di leggere la
realtà, di rendersi conto che lo spazio per la
rappresentazione, per l’opinione, per la manifestazione è
morto da tempo, annullato, vituperato, strumentalizzato. Che se
volete dare libero sfogo alla vostra idea, se volete essere
partigiani, non potete lasciare spazio ai dubbi. E’ il tempo di fare,
di agire: che sia come riformisti (candidarsi, eleggersi, schierarsi,
infilarsi in istituzioni di merda varie), che come radicali
(tralascio gli esempi, ma penso che Bonnot o il subcomandante Marcos
li conosciamo tutti). Non si può più aspettare che
succeda qualcosa indipendentemente dalla nostra pochezza. Io sono un
codardo, un vigliacco, o forse non sono abbastanza bravo o capace per
fare passi così tetri, duri e cinici. Ma ammettendo il mio
limite saggio anche il margine con cui mi accosto al crinale. Lo
spazio per le speranze è finito da tempo e la storia sarà
sempre e comunque di chi saprà scegliere, schierarsi e
lottare. E di chi pagherà per questo. Intendiamoci: non
servono martiri, ma servono persone che non abbiano paura di fare la
cosa giusta. Io sabato 21 luglio avrei bruciato tutta la città.
Mi fermai di fronte a decine di miei amici e compagni con cui avrei
dovuto venire alle mani per fare quello che ritenevo giusto.
Sbagliai. Altri non sbagliarono. Perché di fronte all’assalto
alla nostra libertà di quei giorni e dei giorni che sono
seguiti da allora, quello che fecero è ancora troppo poco, ma
ne possono certamente andare orgoliosi (magari in nicaragua, eh? 🙂

Ho usato esempi estremi, ma ci sono milioni di situazioni
quotidiane in cui chiunque di noi può essere un militante
della propria statura etica. Non si può più aspettare e
osservare il crinale. Bisogna calpestarlo, attraversarlo, cavalcarlo,
viverlo. Il versante dei cattivi. Il versante dei giusti.

 

Posted in Pizi Wenxue.