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[Parentesi cinematografica] Closer, Control e Isolation

Non
lo sapevo: l’album dei Joy Division, Closer, pubblicato dopo
la morte di Ian Curtis (suicidatosi a 23 anni, nel maggio 1980)
raffigura una statua del cimitero genovese di Staglieno. Secondo i componenti dei Joy Division, che da lì in avanti si chiameranno New Order, fu Ian in persona a scegliere la copertina.

L’ho
scoperto perché il film Control, una biografia di Ian
Curtis mi è piaciuto parecchio, per le vicende raccontate in modo pesante e soave allo stesso tempo, per
l’ottima musica, oltre ai Joy Division, David Bowie, Sex Pistols,
Clash, insomma il the best di quegli anni inglesi tremendamente
forieri di musica tosta e vite dannate.

Il
film racconta una parte più intima della vita di Ian Curtis,
ma la straordinaria somiglianza dell’attore, la tragica forza della
sue canzoni, anche all’interno di un film, il dramma incombente fin
dalla prima inquadratura in cui si vede la faccia di Ian, fanno del
film una piccola gemma di autoillusione, sempre accompagnata alla
sensazione di tragedia, nel senso più classico del termine.

Qualcosa
che prima o poi ognuno di noi può provare. O hai già
provato.

But
if you could just see the beauty
These things I could never
describe
These pleasures a wayward distraction
This is my one
broken prize

Isolation, Isolation, Isolation

Posted in Pizi Wenxue.


[Libri sotto al Correfoc] Il potere del cane (con una postilla sul correfoc)

La
“guerra alla droga” ha prodotto ricchezze per quasi ogni
narcotrafficante che si rispetti. Altrimenti, cioè negli anni
80 tra Usa, Messico, Colombia e affini, se non facevi la grana eri davvero uno sfigato. Una baciapile, un
leccaculo di qualche signore della droga al massimo e incapace di
arraffare una fetta della torta. E se non riuscivi a smerciare droga
dal Messico, dalla Colombia, almeno con le armi, via Usa, non si
poteva certo rimanere con le mani in mano. E a secco di soldi. La "guerra alla droga" è
stata una delle agenzie di collocamento più fruttuose della
storia recente. Altro che crisi: rimanere al palo sembrava
impossibile.

Se
poi il giro prevede, cocaina -dollari -armi -dollari/cocaina, chi becca
dollari due volte, evidentemente è più fortunato o
bravo. Ricchezze che senza la guerra alla droga sarebbero state impensabili. Se non ci fossero gli sbirri, hanno pensato più di
una volta i narcos de La Plaza, non sarebbe stato possibile che una cosa così
economica come la coca, potesse finire per produrre profitti così alti.
Perché se non ci fossero stati da superare gli ostacoli polizieschi
(spesso di facciata, in nome di qualche moralismo d’occasione) il
prezzo non sarebbe mai salito a certi livelli.

Se
poi all’interno della guerra alla droga finiscono operazioni che segnano
la storia politica e sociale di un paio di continenti, centro e sud
America, allora la situazione si fa interessante. E se si scrive un
libro, si regala grande godimento agli amanti del genere. Se il libro
è Il potere del Cane, bingo!, come direbbe Pesche Grande, forse.

Don
Winslow (che una bella cartella in faccia l’aveva già regalata
con L’Inverno di Frankie Machine, formidabile)
mette su un autentico capolavoro incentrato sulla vicenda storica
della "guerra alla droga" degli anni 80 e 90, muovendo personaggi veri, e di finzione, su
un palco che niente ha da invidiare al capolavoro al riguardo, ovvero
American Tabloid di Ellroy. Là
c’era Kemper Boyd, qui Art Keller, là c’era Pete Bondurant,
qui c’è Sal Scachi e non solo. Una saga di malavita,
intrecciata alla storia della democrazia più ridicola della
terra, gli Usa. In mezzo i Contras, le Farc, la mafia, la Cia e chi
più ne ha più né metta. Piani, strategie,
intrighi e sballo.

Struttura semplice, da un punto di vista
narrativo, perché Winslow deve fare ballare centinaia di
protagonisti, regalando una vera e propria reality fiction coi
controcazzi, roba da mettersi in ginocchio o sperare di avere la
stessa idea, costanza e bravura per creare al più
presto, qualcosa di simile. O perché qualcuno ci stia pensando.

Potremmo
chiamarla New Italian Epic, fossimo in Italia, anche se dal
mio punto di vista, nemmeno Romanzo Criminale regge l’urto
della prosa ammmericana di
Wislow, secca e asciutta come la pistola di Callan, dei dialoghi
spaventosi
e delle ambientazioni: sempre frontiere, confini,
equilibri labili latenti e spesso finali. Per non parlare del buon
Sarasso o di altri che si sono, ammirevolmente è chiaro,
cimentati con il genere. A questo proposito prima de Il Potere del
Cane
avevo letto Il Bambino che sognava la fine del mondo (una
reality fiction ambientata a Bergamo su uno degli scandali legati
alla pedofilia che tempo fa sconvolse l’Italia) di Antonio Scurati.
Tra l’uno e l’altro – non me ne voglia Scurati che pure beccavo in un
bar di Piola nella capitale economica del paese che non esiste, a farsi il caffè e mi sembrava un tipo
interessante – mi è parso di passare dal vedere la Rivarolese
in Promozione al Torbella, allo stare seduto a vedere il Barca in Champions, al Nou Camp. O
quasi. Perché, al contrario dei nostri autori, Winslow non si
mette mai allo specchio. Racconta una fottuta storia. E lo fa da dio.

p.s. il correfoc è una delle pratiche con cui si celebra la settimana di festa a Barcellona, la Mercè. Non c’ero mai stato ed è divertente: centinaia di persone vestite da diavolo si riversano per la strada dando fuoco alla gente…:-O

La gente sta sotto al fuoco, gioca con i diavoli (che spesso si innervosiscono perché tutti gli zompano addosso e lì sono cazzi) e si cammina per qualche ora, uscendone senza forze, puzzando come una capra, perché i fuochi sono pirotecnici e tanfano da far male, sudati come bisonti, ma scarichi e rilassati.

Perché sotto al fuoco – che brucicchia e lo sanno i vestiti con cui ci si barda, travisandosi (in Italia sarebbe impensabile perché magari si potrebbe temere che qualcuno possa inveire contro i missionari di pace dell’esercito italiano…) – si salta e si urla. Ed è davvero liberatorio, non lo pensavo.

Ecco: Il potere del cane, la sua anima, è simile al correfoc.

p.p.s.
qui
la recensione del mio socio
. Voto alto ma un po’ troppo breve per
i miei esigentissimi gusti 🙂

Posted in Pizi Wenxue.


[Libri nel Paese che non c’è] Io sono il mercato

Cosa
succede per un cartello di narcos, a fine anni 80 quando gli Usa in
depression cominciano ad avere bisogno di eroina e non più di
cocaina? La cosa peggiore per un commerciante è vedere la
propria merce invenduta. Si apre il mercato europeo, naturalmente,
inondandolo di cocaina. Ma cambiano le rotte, bisogna portare in
Europa tonnellate di bamba, i corrieri, le mule, gli ovuli nella panza, non bastano più.
Quelli sono traffici piccoli, microscopici. Non da milioni di dollari. Inoltre, per carichi pesanti, la filiera diventa troppo costosa e rischiosa, perché devi corrompere
troppa gente. E troppa gente significa che per uno di loro che
ubriaco si vanta al bar ti saltano affari da milioni di dollari.

Allora,
servono quelli che in gergo si chiamano, i sistemisti. Questi
elaborano rotte sicure, nascondo la roba, e te la consegnano chiavi
in mano. Si prendono tutto il rischio, ma anche una barcata di soldi.
Io sono il mercato (di Luca Rastello, Chiarelettere), è
la storia di uno di loro, in carcere con una bella condanna pesante,
italiano, che ha fatto affari con i principali cartelli del mondo.
Era un numero uno, uno che poteva lavorare con un fido di due milioni
di dollari. Ovvero, se avesse perso un carico di due milioni di
dollari, non gli sarebbe successo niente. Mica una cazzata da ridere.
Perché lui ha inventato un sistema, il buio.

Una
genialata. Ficcava la bamba nei container che portavano in Europa,
metti a Genova, carichi di marmo (lui commerciava in marmo). Oppure
nel marmo stesso. Marmo figo, di prima categoria. Poi succede che
alle dogane ci sono gli archi, ovvero
sensori in lotta perenne coi narcos per scovare la roba. I metodi per
nascondere la bamba sono tantissimi (e nel libro ci sono molte
ricette, dal classico, il caffè, a quelli più elaborati
usando olio di tir o anche senape!), così come i controlli
alla dogana non avvengono su tutti i carichi, ma solo su quelli
sospetti, segnalati, o di ditte poco note. Insomma, pensa il
sistemista, sono quasi in una botte di ferro, ma dipendo comunque
troppo dal culo o dalla sfiga che quel carico finisca random sotto i
controlli. E sotto i controlli potrebbero beccarmi.

E
allora si inventa il
sistema del buio.
Spedisce un carico di granito, mettiamo, dal Venezuela a Genova, con
un ordine emesso, ad esempio, dalla Fiat. La Fiat non ne sa nulla,
qui sta la carognata del buio. Ma per i narcos è la svolta.
Quando arriva alla dogana, il carico però verrebbe smistato
nei garage della Fiat, oltre a rischiare di finire, random, sotto gli
archi dei controlli. E questo non deve accadere. Così prima
che il carico arrivi nel porto, il sistemista va alla dogana e
dovrebbe dirgli una roba più o meno così: “guarda
sono un babbo, ho spedito il granito prima di avere l’ordine. La Fiat
alla fine non me lo ha fatto, ma non c’è problema, me lo
ricompro io e poi gli mando le cifre concordate oggi. Basta che mi
fai arrivare il carico al garage X”. Un doganiere si stupirebbe,
naturalmente. Ma pagando cash, (questo è un’ altra costante del metodo del sistemista: sempre luccicante cash) e dando al tipo una percentuale, parliamo di migliaia di euro, (oppure
avendo saputo la sera prima da un proprioiformatore che il tizio ha
debiti di gioco….) si finisce per corrompere, o quasi, solo una
persona e la bamba è in cassaforte, direttamente nel proprio
hangar. E la cosa è più facile di quanto sembri. Non più decine di persone, una sola.E solo vagamente stupito da quel pagamento. Chi immaginerebbe che dentro a luccicante marmo uno ci ha ficcato la bamba? Quella di solito, dice il sistemista, la mettono in marmi del cazzo, quelli dei cessi. E li beccano, perché non sono dei sistemisti. Non hanno calcolato tutto.

Ci
sono anche le storie dei cartelli, la caduta di Escobar, alcuni morti
eccellenti, bizantismi del narcos e governi, naturalmente. Alcuni
insospettabili. Si legge in tre ore, ed è istruttivo.

p.s.

Nel
ritorno nel paese di Mike Bongiorno, ho una bella massa di libri pronti o già
divorati. Segnalo anche
Vedi di non morire,
(Josh Bazzell, Einaudi Stile Libero)
.
Il titolo è una merda, ma il libro spassoso. Un ex killer
della mafia, sotto programma di protezione, medico chirurgo in un
ospedale. E’ medico davvero eh. Finché non gli capita un
mafioso che gliel’ha giurata, nel letto d’ospedale. Un mix tra mafia
story e fiction ospedaliera. Da morire dal ridere. Inoltre come il libro precedente o come Palanhiuk, è un manuale di ogni cosa sgradevole che vi possa capitare di subire o pianificare, nella vita. Non solo in ospedale.

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[Nagorno Karabakh] La Quasi Indipendenza

Senza
quel pezzo di terra l’Azerbaijian non può collegarsi
con un suo territorio al di là dell’Armenia, con tutti i
problemi del caso, come ad esempio la necessità di costruire linee del petrolio che passino via
Georgia, per arrivare ai fratelli turchi e infine in Europa e infine
negli Usa.

Gli
armeni, senza quel pezzo di terra, vedono ridotta la linea di confine
con l’unica nazione amica della zona, ovvero l’Iran (oltre a
rivendicare la presenza armena, millenaria, su quel pezzo di terra).

Un
lembo di territorio che divide i due assi caucasici, e non solo:
Turchia Georgia Azerbaijian, Usa da un lato, Russia, Armenia, Iran,
Cina dall’altro. Oil and gas, as usual.

 

Quel
pezzo di terra è il Nagorno Karabakh, conteso
attraverso una guerra tra armeni e azeri, che ha fatto circa 30 mila
morti, oltre un milione di profughi e che ha raso al suolo intere
città. Incredibile la vista di Agdam (purtroppo non si
possono fare foto), sterminata dagli armeni. Una città di
circa 120 mila abitanti, ormai disabitata e fantasma, i cui confini
sono i tank bruciati alle sue porte e che dall’alto offre anche la
sua fisionomia, decapitata.

 

 

 

In
teoria dal 1994 la guerra è finita, ma ancora un anno
fa ci sono state scaramucce (una dozzina di armeni e 3 azeri mi pare,
morti), perché un accordo formale e ufficiale non è mai stato raggiunto, nonostante alcuni tentati andati a vuoto, nel silenzio totale dell’opinione pubblica occidentale. Il
Karabakh è indipendente, solo per l’Armenia
. Il 2
settembre, come in una festa di paese, a Stepanakert, la capitale, si
è celebrata l’indipendenza, o la quasi indipendenza.
 

 

 

Posted in Pizi Wenxue.


[Foto! :-O] …panorami di città

Qui le altre foto…



Stazione dei bus a Akhaltsikhe (Georgia)

 
Chiesetta nel sud est armeno di Areni (Armenia)


Moschea verde Islam a Erzurum (Kurdistan turco)


 
Pastori e nuvole nei pressi della stonehenge armena di Karahundj (Armenia)

.


IN taxi collettivo verso il confine di Posof, tra Turchia e Georgia


 
Palazzo sventrato dagli attacchi armeni a Shushi (Nagorno Karabakh)

.


Anarchici a pisciare, a Van (Kurdistan turco)

 
Orrore e raccapriccio nel museo di Stalin a Gori (Georgia)

[thanks to L.]

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[Foto! :-O] Fiori frutta qualità…



Orto-mercato anarchico di Van (Kurdistan turco)

 
Sala da the all’aperto di Erzurum (Kurdistan turco)


Mercato di tutto a Tbilisi (Georgia)


 
Mercato nel quartiere genovese (Istanbul)


Mercat(ino) a Stepanakert (Nagorno Karabakh)


 
Ristorante cinese, a forma di Titanic (dicono loro), patrocinato da un barone russo a Vank (Nagorno Karabakh)

.


Mercato di tutto anche a Yerevan (Armenia)

 
Mercato a Kars (Kurdistan turco)

[thanks to L.]

Posted in Pizi Wenxue.


[Armenia] Borders Dangeroux

Da un giorno in Armenia, posso affermare di apprezzare l’aria rilassata
di Yerevan, il fatto che domani con una fantastica Lada spero mi dirigero’ verso il Nagorno Karabak, enclve armena e cristiana in terra azera, e
soprattutto ringrazio il dio rossoblu di essere uscito da una schizoide e scortese
Georgia, di cui ricodero’ solo l’acqua gassssssata, ottima (Borjomi su tutte). Di seguito (Mosquito non ho ancora potuto scaricare le foto, poi al
massimo te le metto tutte insieme…:) la cronaca degli attraversamenti, oltremodo
faticosi, di quelle cose inutili chiamate frontiere

Turchia – Georgia 

Allora: i turchi negano il genocidio armeno (incredibilmente,
aggiungerei) e per ripicca al fatto che gli armeni invece cercano di diffondere
le prove (tantissime e il museo a Yerevan
e’ chiaro, molto interessante e ben fatto e rigoroso, aggiungerei) hanno chiuso le frontiere. Quindi per
arrivare in Armenia bisogna
passare dalla Georgia.

Da Erzurum, fino a Ardhana, o qualcosa del genere, in minibus, poi fino a Posof in 7 su un taxi, infine al confine. Scendiamo dal taxi e una luce
che segnala la barriera si spegne. Arriva un soldatino turco, ci tira su la
barra, ci fa entrare e sparisce. Ne arriva un altro che dice, “10 minuti e chiude
il confine”. Poi ci guarda e dice: “ma
come siete entrati, avete scavalcato?
” Faccio finta di niente, gli indico
il suo collega che riappare dietro una finestrina e finalmente consegnamo i passaporti.
 

Prima di mettermi il timbro devo ancora superare una prova. La guardia
mi dice: “e’ la prima volta
che entri in turchia
?” Io gli dico che veramente
starei uscendo….poi mi ricordo che a Istanbul
avevo dato la carta di identita’, mistero risolto e finalmente mi mettono il
loro fottuto timbo e passeggiamo nella zona di nessuno per alcuni metri. Altra barriere
e compaiono i poliziottini georgiani. Ci fanno passare, timbro, "welcome to georgia" e altra
strada. Buio totale, sono le 21 in
Turchia, le 22, solo 50 metri piu’ in la’, in Georgia.

Ci ricevono 4 o 5 guardie. Arriva la prima, in borghese, e chiede dove andremo in Georgia. Rispondiamo tre o quattro posti a caso. Se ne
va. Arriva un altro. Stesse domande. Stesse risposte. Arriva un terzo, stesse domande, stesse risposte. Arriva un
quarto: “siete turisti?”. Vorrei parlare uno stretto dialetto dell’Ossezia del sud e infine dire, "no" e fare esplodere la cintura. Invece: la nostra faccia dice "si" e fa anche capire di avere i coglioni e le ovaie che girano a velocita’ folli. E’ sufficiente e a quel punto
siamo liberi di fare qualche chilometro su una strada sterrata, su una macchina che non ha la prima, offerta gentilmente da due cortesi ubriaconi di frontiera e giungere al
primo paesino georgiano, dormire e finalmente arrivare a Tibilisi. Pensavamo
fosse difficile entrare, invece no.
Il problema e’ uscire dalla Georgia.
 

Georgia – Armenia

La Georgia non e’
un paese facile. Tbilisi
ha qualche strada carina, per il resto e’ morta, triste, mette veramente tristezza, specie perche’ le strade fighette hanno prezzi folli e sono abitate da facce da gangster e poco altro. Mi ha ricordato l’Albania, che
ho visitato
dieci anni fa,
pero’. In piu’ la gente, forse non abituata al
turismo, e’ scortese e davvero poco disponibile ad aiutare, rispondere e capire
che non tutto il mondo parla il russo. Poco male, ci si sta due giorni, in
tempo per andare a
Gori, dove e’ nato Baffone Stalin, visitare il suo museo (tremendo), guardare le
sue duecento statue sparse per piazza Stalin, o corso Stalin, o via Stalin, o passeggiata Stalin, tornare a Tbilisi e prendere
un trenino per
Yerevan
. Sono
circa 400 chilometri, ci mette 15 ore, partendo da una stazione fantasma in cui
nessuno sa indicare il binario dal quale il treno partira’. Pero’ ci si ingegna, ovvero si chiede a chiunque, mille volte, si parte e
fine.

Solo che
poi salgono i
poliziottini di frontiera georgiani e ricomincia il film. Scopriamo, sul treno, che le
guardie georgiane non possono farci il timbro di uscita dal paese. Sono li’ nel loro ufficetto volante, con un computer del 1915-1918 e molto simpaticamente ci dicono: dovete scendere e venire con noi. La situazione ideale. Educati come al
solito si prendono il passaporto spariscono, riappaiono, spariscono di nuovo. Ogni
tanto ne arrivano due, aprono la porta del
treno (noi siamo obbligati a sostare tra le due vetture del treno per un’ora almeno, hai visto mai
che scappiamo senza passaporto, diobono…). I due che aprono la porta del treno, con una
spinta finirebbero giu’ facili, ma il treno va ai due all’ora, penso, e non ne
vale la pena. Finalmente sembra che scendiamo, dobbiamo andare alla frontiera,
treno addio e poi sono stracazzi nostri.

Attraversiamo qualche metro di rotaia,
scortati dalla luce di una torcia dei birri, poi uno spiazzo odorante di merda di vacca, superiamo una
catena che chiude chissa’ cosa, attraversiamo un ponte, raggiungiamo un autobus. Pensavo fosse messo li’
da secoli, abbandonato. Invece quando ci fanno salire, compare un omino che si
mette alla guida e parte. Mi guardo intorno. Come diceva mia nonna, mi tocco per vedere se ci sono.  

Il
paradosso:
siamo gia’ in Armenia, ma usciamo e rientriamo in Georgia (un poliziottino ci dice, “welcome to georgia”. Sorride. Noi no). Enfin, ci mettono il timbro, e ripassiamo in Armenia,
superando le barriere senza che nessuno si palesi. Ci riceve un
tassista pronto a portarci ovunque. Peccato che in Armenia serva un visto. A mezzanotte circa due persone nella terra di
nessuno chiedono a chiunque capiti a tiro: abbiamo
bisogno del visto per entrare in Armenia
…Il tassista, che si chiama
Armen, per non sbagliarsi, si sbatte e presumiblmente sveglia il militare
di frontiera che stancamente procede alla stampa del visto.  

Quest’aria
anarchica mi conquista e mi fa passare il nervoso, oltre che il confine. Infine,
dopo un ottimo caffe’ armeno alle 3 di notte presso una stazione del gas, con un freddo pungente e una stanchezza incresciosa, spunta Yerevan.
Armenia, diobono!

Posted in Pizi Wenxue.


[Kurdistan] Anarchy in Van

Dopo
aver fatto circa 2mila chilometri in Kurdistan, parte dei quali con
il mio socio e Blanca (e magari ne scrivera’ lui direttamente) avere
visto l’antica capitale armena, i confini con Armenia, Siria e Iran,
eccoci a Van, sud est curdo, situata sull’omonimo lago, che qui
chiamano mare. A Dyarbakir, la capitale curda, un attivista di
cui avevo il contatto mi aveva detto che a Van avrei potuto essere
ospite di una coppia di anarchici curdi. E infatti, arrivati a Van,
eccoli a prenderci. Si e’ vissuto per 4 giorni da autentici curdi con
tutti i pro e i contro del caso.

Sami
e Aydan sono anarchici, hanno una bella casa accogliente, anche se
qui fa un freddo della madonna, ed hanno una figlia di neanche un
anno che si chiama Emma, in onore di Emma Goldman. E’ nata lo stesso
giorno di Kropotkin, ci tiene a precisare Sami. La loro gentilezza mi
ha imbarazzato, mentre il loro gruppo di amici anarcoidi e’ uno
spettacolo fuori da ogni immaginazione. Qualche sera fa ci siamo
trovati tutti insieme a bere birrette e mangiare pesce alla brace,
sulla riva del lago. Guardandoci ho pensato: tutti da arrestare.

Questi
si fanno il culo, politicamente parlando, e discutono di guerriglia e
montagne perche’ per loro e’ normale, vivono ogni giorno la loro
personale forma di resistenza, discutendo di marxismo e anarchismo,
che mica la pensano tutti allo stesso modo. Per il resto non e’ che
fanno granche’, nessuno lavora veramente. Mi hanno detto che o lavori
per il governo o ti metti a trasportare droga dall’Iran. Non e’ tanto
bella come ipotesi. Oppure fai come loro, spendi il meno possibile, coltivi la verdura e fai politica ruotando piu’ o meno intorno al
pkk e fine delle trasmissioni.

Di
loro mi ha sorpreso: la gentilezza, l’ospitalita’ e la preparazione.
Sami ad esempio e’ un’enciclopedia, conosce il pensiero politico
italiano meglio di tanti italiani, non e’ difficile, lo so, e non
solo. Su Deleuze e Focault ci siamo trovati e peccato che il suo
inglese sia veramente tremendo e su molte cose non e’ facile
discutere. Poi di sera, tutti in casa a bere the e chiacchierare. Stasera altro pesce, in casa per terra con danze curde improvvisate. Uno spettacolo davvero. Di
giorno invece, e per fortuna che li ho trovati, ci si ritrova in giardini
segreti
, come li chiamano loro. Per la prima volta in 30 anni il
fottuto Ramazan (Allah e’ grande) e’ iniziato in pieno agosto e qui
e’ il panico. Non si trova da mangiare e bere e perfino fumare per le
strade e’ sconsigliato. In
piu’ sono tutti incazzosi, per sto cazzo di Ramazan (vogliamo tanto
bene ad Allah) e anche girare in macchina e’ una gran mennata…Per fortuna gli anarchici lo schifano sto cazz de Ramazan (Allah, almeno il the diobono!) e si trovano
posti semi nascosti dove bersi un the, fumarsi una marea di sigarette, ma veramente una cosa inumana, e se ti va,
spaccare un kebab, parlando di quanto sono fasci gli islamici.

Non e’ che mangiano tanto, infatti io stanotte
pensavo mi sarei divorato le coperte. Come detto, specie di sera fa un freddo della madonna e la
copertazza di yak, presumibilmente, e’ un ottimo ristoro fisico e
mentale, specie se nel tardo pomeriggio ci si fa una nuotata nel lago di Van, che qui chiamano oceano, le cui acque sono viscide anziche’ no. E’ perche’ ci sono i minerali, mi hanno detto. Certo, ho pensato.

Ah e in casa acqua calda sti cazzi, quindi la doccia consiste nell’aspettare 8 ore per scaldare l’acqua e versarsela con simpatici mini bulacchi (piccole recipienti), come facevano gli antichi. Caldo e interessante, romantico, direi.

Comunque: domani
si parte, destinazione Erzurum, dove ci aspetta una anarchica
femminista turca. Un’altra
storia in questa terra (con paesaggi e panorami spettacolari, mozzafiato che nessuna macchina fotografica potra’ mai riprodurre) che mi fa sorgere pensieri tremendi. Di
abbandoni e fuga, di lotta e tempo perso. Poi sara’ Georgia,
destinazione Armenia.

Nel frattempo grazie a Lucho e alla sua
doppietta vissuta in auto su una strada che non so neanche come ho
fatto a uscirne. Gasperini: Lucho deve giocare, SIEMPRE!

Posted in Pizi Wenxue.


[Kurdistan] Tappe



Donne a passeggio (Istanbul)
 
Confini intriganti

L’Ararat, montagna (sacra) armena, in Kurdistan, ma ufficialmente in Turchia. A destra il confine iraniano.

 
Cibarie (bomba, ayran, kola)

Gioventu’ bruciata a Dyarbakir, capitale della Curdonia
 
Kars.

[thanks to L.]

Posted in Pizi Wenxue.


[Pechino] Rumors da Supercoppa

Preso
atto che non sarò a Odense il 27 agosto, sulle tracce di Pamuk, saluto Pechino con
questo pezzullo sui campionissimi della pedata in Cina. Un po’ di
sano gaffe – gossip…

Poiché
le partite d’agosto lasciano spesso il tempo che trovano, per la
versione cinese della Supercoppa italiana del 2009, aloni di mistero
che non siano relativi al risultato, ondeggiano intorno al match. C’è
chi è curioso di sapere quale sarà la prima parola in
cinese imparata da Lotito, se Morganti e Mourinho litigheranno, data
la loro propensione a guadagnarsi il premio di chi sia più
vanesio, chi sarebbe interessato a capire quanti soldi girano, alla
fine, intorno a questa supercoppa italiana in terra cinese. Che
nessuno l’ha mica detto. Il lato tecnico lascia il tempo che trova:
esigenze di marketing impongono una finale l’8 di agosto, con
italiani al mare o a millantare la partecipazione alla chiusura di
accordi turchi-russi sul gas e gambe di cemento armato. Passo stanco,
acido lattico, abbronzatura ancora fresca.

Il
tutto condito da un clima umido, caldo, risucchiato dalla cappa di
smog della capitale cinese. Il panorama generale è quello di
un calcio viziato a due velocità: l’Inter dei campioni
rigorosi, del pago e pretendo, delle paranoie, la più
casereccia Lazio, più umana e tranquilla. Entrambe comunque
distanti, troppo, dal mondo reale. Per uno sport popolare come il
calcio, un segno inequivocabilmente negativo, perfino in Cina.

Il
campo

Il
Nido D’Uccello pare abbia un manto erboso ridotto decisamente male.
Già Mourinho in conferenza stampa ha messo mani e piedi
avanti, sottolineando la cattiva salute dell’impianto. Pare che ieri,
alla vigilia, siano state scovate tre grosse buche. Molti i cinesi
impiegati a cucire zolle e aiutare l’erba a nascondere le chiazze di
terra battuta. E dire che l’Inter un mese e mezzo fa aveva spedito a
Pechino un agronomo, affinché niente fosse lasciato al caso.
Ieri, poco prima dell’allenamento della Lazio, un responsabile cinese
del terreno avrebbe chiesto l’aiuto di un interprete italiano per
rivelare un retroscena scabroso, sotto forma di domanda: «per
favore, chiedete ai tecnici di fare un allenamento leggero per non
rovinare il campo». Una supplica.

The
President

Joseph
Needham era uno scienziato che, innamoratosi della Cina ha prodotto
una sorta di enciclopedia sulla storia della scienza in Cina. Un
lavoro impressionante, che fa di Needham uno dei più grandi
sinologi su scala mondiale. Di lui si narra che la prima parola
imparata in cinese sia stata sigaretta. Del super- presidente
Lotito la curiosità era capire quale parola in cinese avrebbe
fatto sua, ma pare non sia pervenuta. In compenso ha sfoggiato
orgoglio in Ambasciata e in Piazza Italia, ha gigioneggiato tra i
suoi calciatori, si è infuriato sulla questione del calciatore
svedese che ha firmato per la Lazio e per l’Herta e ha impartito a
tutti lezione di scopa nella sala dell’albergo Westin, sede del
ritiro biancoazzurro. Forse perché circondato da bodyguards e
atleti cinesi negli impianti sportivi, grossi, muscolosi e alti, ha
notato un cambiamento genetico nella popolazione cinese. Lui era
stato in Cina dieci anni fa. «Sono cresciuti in altezza»,
pare abbia concluso.

Lo
Special One

Il
mister per eccellenza, già all’arrivo all’aeroporto di Pechino
aveva fatto sorgere inquietanti interrogativi: come mai Mourinho ha
sempre cinque o sei borse tra le mani, quando i suoi giocatori e
tecnici sono armati solo di ipod? E’ una domanda che toglie il sonno
agli interisti. Un Mourinho tutto sommato in tono minore nella Cina
trepidante per il suo arrivo. Paranoico e burbero, ha richiesto la
copertura delle finestre degli spogliatoi laziali con delle lenzuola
per impedire a Ballardini – che avrebbe allenato i suoi dopo di lui
– di scorgere i suoi segreti tattici. Ieri sera, quando i laziali
sono scesi in campo, si stavano allenando gli arbitri. Pare che un
rappresentante della classe arbitrale sia andato personalmente da
Ballardini a chiedere di attendere prima di entrare sul terreno di
gioco. «Non vorremmo che ci copiaste gli schemi», hanno
ironizzato. Anche gli arbitri fanno satira.

Da
registrare infine un episodio curioso: pare che Mourinho sia a
conoscenza di un centro commerciale sconosciuto perfino agli autisti
cinesi. Scazzato avrebbe mollato il minivan davanti all’albergo per
tornarsene in camera. Roba da prostituzione intellettuale con
caratteristiche cinesi.

I
ragazzi. E i soldi.

5
milioni ballerebbero in questa supercoppa. Uno sponsor gigante, UVS,
e tre milioni divisi in due nelle casse della società. Il
resto alla Lega, presumibilmente, con la company cinese a recuperare
il maltolto tra sponsor e diritti televisivi. I protagonisti, i
calciatori, hanno vissuto Pechino tra allenamenti e mille impegni di
rappresentanza, cercando di capire quanto meno dove fossero stati
catapultati. Qualcuno ha chiesto se Mao fosse un imperatore, qualcun
altro ha tentato acquisti improbabili, sostenendo di pagare in yen
(la moneta giapponese, ndr), altri dopo una settimana avrebbero
esclamato, sorpresi: «cazzo, siamo in Cina, non in Giappone».
Sò ragazzi.

L’attesa
cinese

I
cinesi amano il calcio italiano, ma hanno un modo tutto loro di
attingere alle informazioni. Molti fans hanno cantato Pazza Inter
alle sedute dei supercampioni, altri hanno presenziato
all’allenamento della Lazio. Alcuni, forse tratti in inganno dal
fatto che la Lazio proviene da Roma, pensando di trovarsi i
giallorossi, hanno perfino urlato Totti, Totti. Alla faccia
del Colosseo e del Roma vi aspetta scritto in caratteri cinesi
sulle divise laziali preparate ad hoc per la finale di Supercoppa. I
posti al Nido d’Uccello in compenso, sono esauriti, ma nessun
quotidiano cinese sembra occuparsene più di tanto. Più
interessanti i movimenti di mercato del Real Madrid o della Premier
League. Il dottor Ma, che in cinese significa letteralmente cavallo,
è un medico che mette insieme a furia di massaggi e
agopuntura, molti cinesi e italiani residenti da queste parti.
Interessato al calcio italiano, conosce tutto, da calciopoli a
Bearzot, da Lippi alla recente cessione di Ibra. Ma con sommo stupore
ha scoperto che nella sua città, Pechino, oggi giocano Inter e
Lazio. Chissà quando saprà il risultato.

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