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[China] Il Maestro della Notte

La
copertina non è male. In questo giorno interlocutorio, in
fatto di fonti interessanti on line, riprendo il discorso sulle
letture cinesi. Dopo i saggi e English, Mo Jan e Yu Hua (il mio
preferito) e tanti altri
, Spaghetti cinesi e romanzi di scrittrici cinesi, ecco
Il Maestro della Notte, di Bai Xianyong, Einaudi. In copertina il consueto slogan così
così: il romanzo della gioventù bruciata cinese.

Il romanzo è interamente ambientato a
Taiwan. Nella notte di Taipei, nelle sue luride, lugubri e allo
stesso tempo vitali scorciatoie di vita e morte, sconcezze, orgasmi e
nude romanticherie. E’ la storia di un Maestro e mille incontri, così sempre uguali e così, ogni volta,
diversi. Tante storie e la consueta caratteristica che mi pare di avere riscontrato in molti autori
cinesi.

Ovvero, la capacità di affacciarsi al presente e ai suoi temi più problematici, con plot e
dinamiche di trama non distanti dagli autori occidentali, ma che
mantiene intatto uno stile narrativo e di metafore,
immagini, espressioni, sfrontatamente e tipicamente cinesi in cui rivedono persone e situazioni reali, per chi ha potuto sostare qualche periodo in Zhong Guo.

Espressioni, volgarità, modi di dire e l’arte di narrare
affidandosi a scorci, a immagini: impossibile descrivere tutto,
impossibile vedere solo una parte del tutto. Come diceva Mao, senza inventare niente, ma inserendosi nel solco della millennaria cultura cinese, in
tutte le cose, l’uno si divide in due
. Sintomo di strade cinesi, per
valori e idee solo avvicinabili a istanze occidentali, ma mai
realmente convergenti e identiche. Valori e proverbi che dimostrano la difficoltà a comprendere un paese così diverso, nelle affermazioni e nelle negazioni, così come nelle reazioni al divenire della storia. O, come accade ne Il Maestro della Notte, della vita.

Mille
storie si avvolgono – e si dividono in due, e ancora in due, e
ancora – intorno alla notte di Taipei, luogo deputato a raccogliere
gli umori di giovani e meno giovani, costretti a vivere di notte.
L’omosessualità – e il viversi l’omosessualità in
Cina – non è protagonista del libro, sebbene sia l’elemento che ha determinato una prima censura in Cina e a Taiwan del libro: l’omosessualità appare più l’elemento che fa da
sfondo, provocatoriamente considerato scontato e che unisce: è l’elemento semplicemente previsto (i protagonisti principali sono tutti omosessuali) di drammi e sterili successi o
ritorni a una vita normale, che si aggrappano a speranze di volta in
volta vane e vagamente surreali. Vecchi, bambini, ricchi, poveri. Un
universo privilegiato per chi ne conosce ogni anfratto,
clamorosamente incolore per chi non sa cogliere tutte le sfumature
della notte.

Posted in Pizi Wenxue.


[China] Uiguri!

Ora
voglio vedere se ci si indignerà allo stesso modo del Tibet.
Dalle agenzie:

Le
autorità cinesi hanno reso noto oggi di aver sventato un piano
per sabotare le prossime Olimpiadi, che consisteva nel rapire atleti
e giornalisti stranieri. Almeno 35 persone sarebbero state arrestate
nell’àmbito delle indagini nella provincia dello Xinjiang,
abitata dai musulmani Uiguri, parte dei quali rivendica
l’indipendenza della regione che chiamano Turkestan orientale.
Secondo Pechino, nella regione sarebbero stati commessi più di
duecento atti di terrorismo negli ultimi due anni, ma gli attivisti
accusano il governo di fabbricare false notizie per giustificare la
repressione.

Uiguri:

 

Chi
sono costoro: da wikipedia

Nazionalismo
etnico

Limbo
giuridico per 5 uiguri a Guantanamo (una storia del 2006)

Dopo
il Tibet si ribellano gli uiguri islamici

L’ultima
operazione di polizia, di oggi

Posted in Pizi Wenxue.


[China] Il brand Tibet

L’altra
sera ho visto un programma in televisione. Si intitola Niente di
Personale
, lo conduce il direttore de La7, Piroso, si chiama. Uno
che tende a raccontarti la sua vita, intervistando altre persone.
L’attacco è stato micidiale, d’effetto. Collegato da Parigi un
dissidente cinese che si è fatto 9 anni di carcere per
aver tirato, ha detto lui, uova contro il ritratto di Mao in piazza
Tien an Men, nel giugno dell’89. Ora è rifugiato politico in
Canada. Parole forti, interessanti e una presa diretta da parte di un
dissidente in carne e ossa. Giornalisticamente parlando, un bel
colpo
.

Poi
Piroso ha voluto metterci del suo: la Cina comunista di qua, la
Cina comunista di là
. E vabbè, fino a lì,
insomma, formalmente la Cina si definisce ancora comunista.
Formalmente. E si sa che il Tibet è un brand di
successo
, che eleva i punti “democratici” di ognuno. E il
discorso, per fortuna, non si è solo limitato al Tibet, ma
anche, in generale, alla dura repressione cinese di ogni forma
di dissidenza. E giù a lamentarsi di processi iniqui, di
condanne assurde, operazioni di polizia scandalose. Niente da dire,
anzi giusto stigmatizzarle.

Mi
chiedo però, perché si debba andare fino in Cina per
evidenziare trattamenti inumani. Forse
Bolzaneto,
per rimanere in ambiti di cui mi sono occupato, è meno
spendibile in termine di share? Forse la
Diaz,
Aldrovandi,
Bianzino
e tanti altri, sono poco appealing in termini di vendita di spazi
pubblicitari tra una notizia e l’altra?

E
ancora: scandalosa la gestione mediatica cinese, si è detto,
sui fatti in Tibet. Invece la brillante operazione della Diaz a
Genova non ebbe in seguito, e negli anni a venire, una gestione
mediatica scandalosa?
Le
molotov inventate
,
invece, sono un segno di grande democrazia?

Il
capo e l’ex capo della polizia italiana
che dicono, al telefono,
che al magistrato che indaga sulla polizia bisogna “dare una bella
botta”, è un sintomo di società garantista e
democratica? (
qui
potete leggervi la richiesta di rinvio a giudizio per De Gennaro e
amichetti
)

E
ancora Luperi,
all’epoca
del g8 di genova nel 2001 era Consigliere Ministeriale Aggiunto in
missione alla Direzione Centrale della Polizia di Prevenzione, mentre
ora è stato promosso a un non ben specificato compito alla
Presidenza del Consiglio, che nelle dichiarazioni spontanee in aula
dice che durante la riunione con tutti i più alti in grado
della PS in cui si decise dell’operazione Diaz, lui non si rende
conto di nulla perché "esce a sciacquarsi la faccia",
"gioca a cambiare la suoneria del telefonino di Fiorentino",
o "fuma una sigaretta"?

Ora,
certo, l’argomento era il Tibet e non è che si possa chiedere
a La7 di mischiare i piani, di mettere tutto insieme. Prendo solo
come spunto la grnde mobilitazione del mondo dell’informzione per la
causa tibetana, legittima e comprensibile e mi chiedo solo:
l’indignazione sui fatti tibetani da dove nasce? Da una reale
partecipazione, o dalla vendita di un altro brand, come si trattasse
di spazi pubblicitari spendibili sul pubblico televisivo?

Analogamente
si chiede cosa ne sia degli altri diritti di altri popoli
all’autonomia
, i palestinesi, i kurdi e i baschi ad esempio,
nell’informazione internazionale,
Uri
Anweri, un israeliano che analizza il potere del brand Tibet in
termini di opinione pubblica
,
paragonandolo ad altri territori in lotta per una propria maggiore
autonomia. Lotte, culture che non trovano spazio nell’informazione
internazionale. Meno facili da veicolare all’interno dei meccanismi
di comunicazione di massa.

Come
se in Tibet, perché c’è il Dalai Lama, non ci fossero
invece realtà dure e pure, paragonabili a strutture di
supporto a lotte indipendentiste, non lontane da quelle europee
(baschi e corsi, per dire) o altre (quella palestinese).

Il
brand Tibet è più forte e funziona meglio. A
giustificarne l’attenzione ci prova un intervento di Polonews,
ripreso dal blog sulla Cina del Corriere della Sera. Un post molto
interessante
e l’ennesimo ripasso – e interpretazione – della
storia e le ragioni delle proteste tibetane.

Dal
Web, 10 aprile:

Dati
e sviluppo del Tibet (fonti cinesi)

Gli
errori dell’ovest
hanno
acceso una nuova scintilla nazionalista in Cina? Alcuni blogger
cinesi parlano di una seconda rivoluzione culturale

Spaccature
interne al fronte tibetan
o,
tra i giovani del Congresso, più intransigenti, e il Dalai
Lama

 

Posted in Pizi Wenxue.


[China] Dal web, 9 aprile

Stereotipi
su Cina, Tibet e Occidente. Un interessante articolo su Asia Times

La
terra dell’Imperatore Giallo, un mitico antenato della etnia Han, che
si suppone vissuto 5000 anni fa e sepolto nella provincia dello Shanxi. Un articolo
dell’Economist
sul nazionalismo cinese e i problemi con le minoranze
etniche, come già evidenziato da Mao, dopo la conquista del
Tibet.

Crescita
dello yuan, proteste dei lavoratori e fuga delle imprese dalla Cina,
al Vietnam
. Articolo del Los Angelese Times.

Sito
anti CNN sotto attacco
. Lo sostiene il sito Web The Dark Visitor,
e-zine del mondo acaro cinese.

Il
Dalai Lama parla di pace, ma in realtà mente. La lettura
cinese
dei giorni tibetani sul principale quotidiano in lingua
inglese, China Daily.

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China, Tibet e Coca Cola

Riprendo
foto e commento da un blog cinese…che ha scoperto il cartellone pubblicitario (a sinistra), in una stazione ferroviaria di Brema, in Germania….:-)

The
three monks are Tibetan lamas

The rollercoaster ride represents
freedom

"Make it real" means that Coca Cola intends
to bring "freedom" to the Tibet

Comments…: "From
today on, I will not drink Coca-Cola. I will mobilize all my friends
and classmates to refuse to drink Coca-Cola too."

"We
will organize spontaneously to make sure that companies that support
Tibetan independence will lose their China market. No more Coca-cola
from now on, and it is an unhealthy drink anyway…

Il blog in questione è questo, mentre non si possono non segnalare altre due cose:

– infuriano le ipocrite prese di posizione sulla fiaccola, mentre è silenzio in altre zone, dove a morire sono gli uiguri. Ma chi se ne frega, sono pure musulmani. Meglio parlare di Tibet, Richard Gere, Roberto Baggio eccetera.

– Inoltre, mentre infuria la polemica, la Cina procede nei suoi accordi internazionali… 

– in Cina fanno tanto e velocemente: il più veloce instant book della terra, versione cinese, sulla verità in Tibet (e qui link al sito cinese anti CNN in cui sono esposte le accuse dei cinesi, con confronti tra  video, foto e reportage, su quanto riportato dai media occidentali a proposito di Tibet).

Giusto per farsi un’idea a 300 gradi (come diceva il Professore…:-)

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[China] Edoarda Masi sul Tibet

Riprendo
dal blog di Chen Ying, uno dei migliori, se non il migliore, blog
sulla Cina: notizie, riflessioni e approfondimenti. Chen ha
pubblicato l’intervistata di Edoarda Masi, sinologa, sul Tibet. Molto
interessante. Riprendo dal blog:

L’autrice
è una delle due italiane viventi – l’altra è
Renata
Pisu

– che possa vantare una
conoscenza
diretta della Cina

che risale agli
anni
Cinquanta
.
Sinologa d’alto rango, ha vissuto a Pechino e a Shangai, dove ha
insegnato lingua italiana all’Istituto Universitario di Lingue
Straniere.
Ma Edoarda Masi è anche un’intellettuale della
cosiddetta “
sinistra
critica

italiana e ha scritto su tutte le più importanti riviste che
hanno ispirato la
controcultura
italiana, I Quaderni Rossi, ad esempio.

Segnalare
il suo punto di vista, in quanto documentatissima
alternativa
alla vulgata occidentale
,
è quindi utile e dovuto, anche se potrebbe apparire
eccessivamente filo-cinese.

L’intervento
a Radio Popolare è una
rapida
ricostruzione storica

della
questione
tibetana
,
con
indicazioni
di lettura
.
Sintetizzo
brutalmente: il
concetto
di nazione

è stato sempre
ignoto
alle
tribù tibetane, che hanno alternato periodi di
sudditanza
ai cinesi

a fasi di
autonomia.
I
mongoli
(dinastia
Yuan) danno poi autorità di governo ai
monaci
tibetani

– che acquistano grande prestigio in tutto l’impero – sulle tre
provincie dell’altopiano
All’inizio del
secolo
XIX

la
decadenza
Qing
favorisce
il tentativo di
Gran
Bretagna

e
Russia
di
staccare il Tibet dalla Cina e, con la
rivoluzione
del 1911
,
il
Dalai
Lama

proclama l’indipendenza. Ma Sun Yat Sen riafferma la sovranità
cinese. Nei successivi decenni di caos e
occupazione
giapponese
,
gli inglesi impongono sul Tibet una sorta di
protettorato,
vietando ad altri europei di entrarvi.

In
funzione anti-britannica, gli
Usa
non
riconosceranno fino al
1948
nessun
rappresentante tibetano che non sia accompagnato da dignitari cinesi.
Cambia tutto dopo la
rivoluzione
maoista

e la proclamazione della
Repubblica
Popolare

(
1949).
Nel
1950
l’esercito
popolare occupa il Tibet che non è uno stato indipendente ma
formalmente una
provincia
cinese
.
Il Dalai Lama accetta di tornare in Tibet nel 1951 e si accorda con
Pechino per una forte autonomia.

La
società
tibetana

è ferma al 17° secolo, divisa in
3
classi
:
ci sono
nobili
e
buddha
viventi
,
poi il
resto
della popolazione

(90%) in stato di semi-schiavitù. I cinesi impongono in Tibet
le stesse riforme applicate in tutta la Cina, molti tibetani sono in
prima fila nella loro esecuzione.
A quel punto, la
società
si divide
:
nobili
e filo-inglesi

formano l’opposizione e si legano alla
Cia
mentre
cinesi
e filo-cinesi

procedono con le
riforme
e
creano scuole, ospedali e infrastrutture.

Dopo
la
rivolta
del ‘59

(foraggiata da Washington), il Dalai scappa in India, mentre Zhou
Enlai dichiara decaduto il vecchio governo e
sopprime
la schiavitù
.
L’
80%
delle terre

viene
nazionalizzato.
Il
9
settembre 1965

è creata la
Regione
Autonoma
.
Con
la
Rivoluzione
culturale

(
1966)
si verificano saccheggi ed episodi di
distruzione
dei simboli religiosi
.
E’ un fenomeno analogo a quanto sta avvenendo nel resto della Cina
e anche in questo caso va detto che una parte della società
tibetana è in prima fila.

La
Masi sottolinea che che se nel
1959
l’aspettativa
di vita

dei tibetani era di
36
anni
,
negli
anni
Ottanta
si
è saliti a
60
anni
.
E’ l’effetto del benessere e dello sviluppo portati
sull’altopiano. 

Qui c’è l’audio di Radio Popolare. 

Posted in Pizi Wenxue.


I granchi di Playa Giron

Playa
Giron, oltre ad essere il titolo di una delle canzoni migliori di
Silvio Rodriguez, almeno per me, è anche il nome della
spiaggia, dove si combattè, nel 1961, contro l’esercito di
mercenari messo in piedi dalla Cia
, per tirare giù il
giovanissimo governo fidelista di Cuba. La retorica, avvicinandosi al
luogo simbolo, si spreca. C’è anche un museo che narra dell’impresa e raccoglie cimeli, documenti e i consueti particolari tanto cari ai cubani: scarpe, magliette, dentifrici. Un simbolismo ben comprensibile, che si ripete anche nel Museo de La Revolucion a La Havana, in cui sembrano mancare solo le mutande che Fidel indossò durante la trasversata con il Granma (esposto fuori dal museo, la barca, non le mutande).


Un gusto per i particolari un po’ guardone, che si ripete meno nel museo del Che di Santa Clara: deludente il fuori, un’assurda calata di marmo stile milite Ignoto, e anche il dentro con un mausoleo tetro e funereo in stile faraoni egiziani depressi e una expo poco sorprendente, perché le foto e le notizie si sono già viste e sentite svariate volte.

A tratti, con i cartelloni pubblicitari
sostituiti da giganteschi poster di propaganda, Cuba sembra una sorta
di Disneyland della Nostalgia Comunista. Un luogo fuori dalla storia,
che va avanti, nonostante tutto, ponendo interrogativi sia a chi a sinistra ci ha sempre creduto, sia a chi, ancora più a sinistra, mai ci ha creduto (io ad esempio). 

Con le sue contraddizioni e i suoi
misteri (solo impren
ditori, ad eccezione di chi, naturalmente sposa
un cubano o una cubana, sembrano avere i requisiti per decidere di
vivere sull’isola…) e la sua illogicità, tra burocrazia e desbelinamenti personali (dal genovese: intraprendenza personale) Cuba è un mix
tra una desueta forma di resistenza al resto del mondo e un
fallimento storico che assomiglia tanto alla fase pre apertura ai
capitali che si realizzò quasi trent’anni fa in Cina (crisi
economica, ideologia reggente in crisi e in difficoltà, cambio
di potere ai vertici, prime piccole aperture). Le case, le auto, le strutture sembrano robe di oltre cinquant’anni fa, mentre sul Malecon e nelle vie de La Havana vieja è un brulicare di socialità, tra persone in crocicchi nascosti, gente appesa a sedie e con la chitarra in mano, code per il gelato, giardini gonfi di gente.


E come in tutti i paese del "socialismo reale", forme di controllo che, se non sono all’avanguardia, sono senza dubbio imponenti. Molti poliziotti, molte uniformi, organizzazione burocratizzata allo scopo di sapere, o quanto meno registrare, tutto. Tutti segnano tutto su foglietti sparsi ovunque. I taxisti, chi cambia i soldi, i baristi, chi affitta le case particular. Poi arrivano gli ispettori, uniscono i dati e controllano che nessuno abbia sbagliato niente. Un taxista che ci accompagnava all’aereoporto è stato fermato: il poliziotto gli ha controllato tutte le tratte e i tempi percorsi. "Si perde più tempo che a farsi fare una multa", ci ha detto il taxista, di ritorno dal contropelo del "compagno poliziotto". Queste rapide impressione dalla città, vivibile con i suoi ritmi, incomprensibile rimanendo nella vita di superficie, da turista e poco più. Poi c’è il resto.

Verso
Playa Giron, infatti, si respira la Cuba campesina. La strada è colma di buche e gente per strada
pronta a farsi dare un passaggio. Campi, raccolti, cavalli, pecore e mucche. Banane. Riso. Poi, ad un certo punto, la strada
diventa rossiccia. Tante forme di cose spiaccicate al suolo, rosse, scure.
Quando ci siamo arrivati era mattina e solo pochi, pochissimi granchi neri e rossi e gialli, stavano attraversando la strada. Ma sul suolo, c’erano
i simboli di una strage.

Al
pomeriggio, alle sei la situazione si presentava insuperabile.
Con la macchina era impossibile andare avanti. Rumori e odori, importanti, come direbbe la Routard. Miliardi di granchi sulla strada, ad attraversarla, per depositare
le uova e tornare poi al mare. Milioni muoiono, ma i granchi possono
contenere fino a due o tremila uova. Osservando lo spettacolo si
vagheggiava di ecologisti tedeschi pronti a trovare una soluzione.
Incredibile, è vero: una ecologista è a Cuba per
studiare un sistema di salvezza per i granchi. Per i cubani di playa
giron, l’idea fa anche un po’ ridere. Manco si possono mangiare quei
granchi, perché sono tossici. (grazie a zack per le foto…;-)

 

Posted in Pizi Wenxue.


La mano aperta di Cuba

Compañeros
musicos, tomando en cuenta
esas politonales y audaces
canciones,
quisiera preguntar, me urge,
que tipo de armonia se
debe usar,
para hacer la cancion de este barco
con hombres de
poca niñez,
hombres y solamente,
hombres sobre
cubierta,
hombres negros y rojos, y azules,
los hombres que
puedan del playa girón…

Lazaro
è un fisioterapista cubano. Sei anni di università e
poi la fortuna di diventare medico factotum di una squadra di calcio
di italiani e cubani de L’Havana (quella in cui giocano Alviero
Chiorri, ha giocato Enzo Gambaro e gioca Manuel Bodevilla, che non vi
dirà un cazzo e invece si tratta del più volte miglior
calciatore del Centro America. Lo acquisto il Marsiglia ma
Cuba non lo lasciò partire. Ora ha quasi quarant’anni, ma il talento coi piedi è rimasto cristallino).

Essere medico dell’Associazione
che organizza anche la squadra di calcio, accompagnato da un
cartellino portato orgogliosamente al collo, ha consentito a Lazaro
di potersi permetter cose cui molti cubani non possono arrivare (ad
esempio sostare all’interno della lobby di alberghi, permettersi
qualche cena sontuosa, a loro modo, utilizzare anche aiuti diretti
degli italiani cubani e una platea per il suo sterminato parlare).

Pesa più o meno 130 chili, ha mani grosse come le foglie dei
platani grossi, una parlantina infinita, che unisce spagnolo a
parolacce italiane, una camminata possente, durante la quale le mani
non stanno mai ferme. Ha sempre qualcuno da salutare, qualcosa di
indicare, pensieri da aiutare. Di
Miriam, invece, ho meno informazioni. E’ Dottoressa al Pronto
Soccorso della zona de L’Havana, vicino ai campi di calcio dove
abbiamo giocato. Si è presentata con la sigaretta in bocca,
capelli rasta e un dialogo che più o meno è andato
così:

Miriam:
come ti chiami?

Io
(steso su un lettino di metallo e circondato da quattro tende verdi):
Beirut

Miriam:
ok Beirut ora ti faccio l’anestesia locale, sentirai male, ma è
un attimo.

Io:
ok, mi fai anche l’antitetanica che mi sono sguarato contro…

Lazaro:
era una roba di ferro, di mierda…

(L’assistente
porta, avvolte in carta come quella della focaccia a Genova, gli
strumenti del mestiere. L’autista del pullman è più
bianco di me. Avrò modo di rassicurarlo, che ci manca che gli
faccio causa. Mala suerte. Sembrerà meno bianco,
più tardi.)

 

Miriam:
no no. Fino a che non diventi rigido e hai spasmi da morto, non ti
serve.

Io: ah ok.

Miriam:
non guardarmi così, altrimenti rischi di innamorarti.

Io:

Lazaro:
uh uh

Io:

Miriam:
e in ogni caso…

Io:
si?

Miriam:
l’antitetanica non ce l’abbiamo.

Io:

Lazaro:
non è importante, non ti preoccupare.

Io:
allora posso giocare?

Miriam,
Lazaro: no.

Io:
la troveremo?

Lazaro:
non lo so. Ma non è importante! Ora non rompere i coglioni.

Io: ok, senti Miriam, quanti punti mi hai messo?

Miriam:
non mi ricordo. Cinque, sei, forse otto. Torna tra due giorni, ciao Beirut.

Pantaloncini
da calcio numero 29 (come Fabiano del Genoa), maglietta commemorativa
della sfida tra Commissari Europei (io avrei dovuto giocare con loro, divisa stile Pescara di Junior e Sliskovic, strisce bianco e azzurre con numeri rossi. Prima partita, derrota: 0-2, ma avremmo ampiamente meritato di pareggiare. Il clima torrido, il campo duro e Manuel Bodevilla hanno fatto la differenza)
e Italiani e Cubani, mi accomodo in panchina, smadonnando e
guardandomi la mano sinistra fasciata. Uno sguaro che mi ha
permesso di toccare con mano (è una battuta che avrebbe potuto
fare Lazaro) il socialismo reale cubano. Avrei preferito me lo avessero raccontato. Chiedo se posso fare almeno
5 minuti. No, è la risposta di Lazaro, che mi parla per tutta
la durata della partita, di posti dove mangiare squisitamente, di
posti da vedere, di cose da fare, di musica, di posti dove si balla e
del suo curriculum. Ci vediamo due giorni dopo. Programma
prestabilito: visita da Miriam, ricerca dell’antitetanica e delle
medicine.

Perché
Lazaro mi ha messo in una situazione particolare: in pratica mi sto
facendo curare clandestinamente dai medici cubani. Io, in teoria,
sarei dovuto andare all’ospedale internazionale. Le relazioni e la
socialità di Lazaro hanno disegnato però, altre
traiettorie, tra sale d’aspetto, stanze per la vaccinazione dei
bambini – “è il nostro progetto medico rivoluzionario” –
stanzette di medici cubani intenti a compilare fogli per dire a quei
bastardi dell’Iberia che il loro overbooking bastardo dovevano
metterselo in quel posto, perché io avrei potuto volare e
tornare a casa.

Arriviamo
e i piani sono cambiati. C’è sempre tempo a Cuba, per cambiare
i programmi. In un baretto un turista ha chiesto a un vecchietto
l’ora. Questo era il trombettista di un trio che sembrava di essere in Buena Vista Social Club o al cospetto di Atahualpa o qualche altro dio.
Fanno tre canzoni e poi si riposano. Il chitarrista ha un purito cubano bello lungo e largo che lo aspetta, dopo ogni trittico. poi il trombettista si alza, da’ un colpetto di fiato, si spegne la radio e si ricomincia a suonare. Al giovane che gli chiedeva l’ora, il musicista, appoggiato a
una sedia, intento a fumarsi la sigaretta, ha alzato lo sguardo e gli
ha risposto: “Hombre, c’è sicuramente tempo”.

Insomma,
Miriam non c’è, o non si trova, o chissà cosa e allora
si va in un altro ospedale. “Abbiamo studiato tutti insieme,
qualche favore ce lo facciamo sempre, tra medici”. Lazaro mi parla
sul divanetto della sua casa. “Muy humilde, pero linda”, mi dice.
Ci sono sua figlia piccola e sua moglie, incinta di qualche mese.
Un’altra bambina. Poi la madre, la sorella. La mamma di Lazaro è
stata a Roma. Dalla porta si affacciano un po’ tutti. La strada è
bianca, sterrata e su quella si affacciano piccole casette: basse,
con piccoli portici e piante di ogni tipo. Tutti sono interessati
alla mia mano fasciata. Mentre ci facciamo un caffè squisito
Lazaro mi programma la giornata: andiamo qua, facciamo questo, poi
quello e infine andiamo a mangiare. Con quella. E mi indica una
macchina azzurra e bianca, americana, anni 50. Ci staremo in 6 e
sembrerà di avere il culo per terra. Dovremo fare strade
secondarie, perché quel coso se ci becca la polizia, insomma,
mica potrebbe girare quella macchina. Però c’è vento,
aria e dopo un chilometro si spacca il sedile davanti e ci finiscono
sulle gambe i primi tre. Fortuna Lazaro è dall’altra parte. Sennò pure le gambe. Hellas è schiacciata tra me e la moglie del doctor. Tiriamo su il sedile e si andrà
che è un piacere.

Intanto,
giunti all’ospedale, dopo due giorni in cui mi ha detto che in ogni
caso l’antitetanica non è importante, la troviamo. Mi fanno la
punturina, “l’infermiera migliore de L’Havana, mica cazzi”, e
Lazaro mi dice che finalmente ha l’animo in pace. “Era molto
pericoloso senza l’antitetanica”. Eh.

Poi
due infermerie in minigonna e calze a rete mi cambiano la fasciatura.
Mi cede la pressione, fa un caldo dell’orso. Hellas tira fuori uno
dei suoi conigli: un chupa chupa comprato in una stazione di benzina
mentre si andava a Playa Giron. Mi riprendo, mentre si sprecano le
battute. Infine a pranzo con Lazaro e signora: lechon al carbone. Buonerrimo.

Lazaro
ci racconta, della sanità gratis, dello stipendio di un
medico, più o meno 25 pesos convrtibili, o cuc (quella dei due
pesos è proprio una bella merda escogitata dai costruttori del
socialismo cubano), più o meno 20 euro, di come si tiri a
campare, dell’umanità straordinaria dei cubani. Sul
socialismo, Fidel, Raul e compagnia, un sonoro “vaffanculo”, ma
non di rabbia. Di chi, semplicemente, ha una famiglia da mantenere
tra salti mortali e botte di culo e apprezzerebbe un tenore di vita
vagamente migliore. Poi torniamo a casa, ci si scambia numeri e indirizzi, abbracciandosi e dicendosi, "a presto". Ora lo devo
chiamare, per dirgli che tutto è ok.

Posted in Pizi Wenxue.


[China] Tibet!

E’
passata ormai una settimana dai fatti tibetani. Si può
raccontare la vicenda sottolineando alcuni punti particolarmente
interessanti. Non per questioni di parte, ma, credo che alla fine tra
tutti i quotidiani di informazione italiana, quello più laico
sia stato Il Manifesto. Prudente il Corriere, un po’ sballato
Repubblica, terribili i nostri politici.

Appoggiare
senza porsi domande la causa del Dalai Lama è scorretto, oltre
che troppo facile. La posizione migliore, al solito, è quella
di portare alla luce quanto dietro ad ogni fatto pulsa e scroscia. Il
Dalai Lama è un’autorità religiosa. La Cina ha invaso
militarmente il Tibet, dove regnava una teocrazia, sostituita da una
forma dittatoriale differente, portata avanti a suon di soldi e opere
avveniristiche. I cinesi ragionano così: utilitaristi a loro
modo. Come a dire: vi abbiamo permesso di mangiare due volte al
giorno, che cosa volete adesso?

Così
quando sento Giordano o altri sinistri appoggiare indiscriminatamente
la causa tibetana, mi si pongono interrogativi sulla corretta
interpretazione della politica estera da parte dei nostri politici.
Né con il Dalai, né con la Cina, sarebbe la posizione
un po’ internazionalista – oddio l’ho detto – che ancora dovrebbe
animare un concetto di popolo e autodeterminazione, lontana dai
canoni consueti occidentali (che sfociano in razzismo, nazionalismo
ed idiozie politiche).

Tanto
più ridicolo l’appoggio al Tibet, senza se e senza ma e senza
pensarci su, quando tutto il mondo si caga in mano al pensiero di
fare uno sgarro ai cinesi. Loro, zitti zitti, hanno oscurato i fatti,
ammesso parzialmente qualcosa e propagandato, alla stregua di una
potenza occidentale (pensiamo all’Iraq, nel mondo, pensiamo a Genova,
in Italia) la propria verità. Il Dalai Lama ha fatto la stessa
cosa, lavorando per un anno intero per questo solo e concreto
momento.

Cosa
succederà? Niente. Perché il Tibet comincia a
retrocedere nelle notizie calde dei quotidiani, va scemandosi
l’attenzione, come se i fatti succedessero solo perché ne
parlano i giornali, si ricomincerà a tarallucci e vino e
proprio nel momento in cui l’attenzione dovrà essere alta
(repressione giudiziaria cinese e indagini interne – che porteranno
ad epurazioni, c’è da starne certi) – nessuno ne parlerà
più. Come per gli uiguri o per altri focolai pericolosi per i
cinesi.

Non
c’è niente da fare: siamo occidentalisti in ogni nostra
declinazione del pensiero. Pensiamo di capire ed etichettare un mondo
così diverso, ma così ricco di millenaria storia
filosofica, sociale e politica, con i nostri canoni di valutazione.
La Cina, forse, non si può spiegare, catalogare, assumere. Si
può solo raccontare.

Poiché
Il Manifesto poi blinda gli archivi, copio un articolo interessante,
storico e politico, qui di sotto.

Il
ginepraio tibetano radice antica della rivolta

Dal
VII secolo a oggi i tibetani hanno percepito la Cina alternativamente
come antagonista o protettrice, ma la convivenza è sempre
stata difficile, talvolta tragica, per gli errori delle classi
dirigenti Continued…

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[Libri] Il libro di Luca Casarini

 
La
parte della fortuna
è un libro che si legge rapido, il cui
inizio molto promettente, non trova poi un suo sviluppo altrettanto
fascinoso. Scrive bene Casarini, molto lirico in alcune parti,
dialoghi a volte un po’ strozzati, linguaggio mix tra italiano (molto
buono) e slang (molto interessante). Un mix tra l’ultimo Carlotto
(prevedibile nella storia, ma sempre interessante nello stile e nel
divenire dei personaggi), la struttura narrativa di Dazieri (e il
finale a ricordare il primo ending della saga del Gorilla dove il
Leoncavallo di milanese memoria è sostituito dal Rivolta) e
ammiccamenti alla letteratura delle rape di Bunker, seppure con meno
foga, più sarcasmo, più quiete e meno rabbia.
Riferimenti, naturalmente, perché un’opera prima o è un
capolavoro o è sempre un passo intermedio nella vita di un
autore.

La
storia in sé, a mio parere, è lenta e prevedibile, ma
ha un grande merito: quello di aprire un varco, narrativo, sulle
squallide dinamiche dei CPT e di tutto quanto vi gira intorno. Un
morto, una fuga, un’organizzazione di amici che corre in aiuto.

Dinamiche
un po’ infantili, adolescenziali, non in senso negativo, portate
avanti con uno stile rigoroso e in alcuni momenti molto poetico.
Marghera, Venezia, Pantelleria sono gli sfondi contrastanti dei
movimenti inconsueti e schizofrenici della fortuna, che pare non
abbandonare mai i protagonisti del libro. Come in tutte le opere
prime c’è troppo, in alcuni casi (troppa insistenza su alcuni
modi per caratterizzare il personaggio principale, vedi le ricette) e
troppo poco in altri punti.

L’inizio
del libro mi aveva convinto: quando si affacciano i personaggi e il
piccolo intrigo che fa da sfondo al libro, Casarini promette al
lettore alcune ore di svago intelligente e divertente. E’ la stretta
di mano, dell’incipit, tra autore e lettore, come sostiene Baricco.
Io la mano l’ho stretta, ho accettato il viaggio.

Poi
il ritmo si perde un po’, la storia si dipana per lo più in
azione, e non in mistero, e la categoria del noir cui il libro è
associato, richiede la sua dose di suspence che nel libro non c’è
più. Finale prevedibile e aperto a un nuovo episodio della
strana cooperativa, protagonista del romanzo.

In
epoca di gialli e noir un po’ spenti sotto il profilo della trama –
ammetto il mio amore per trame complicate con colpi di scena continui
– ma anche deboli sotto il profilo della più pura ricerca
sociale, La Parte della Fortuna, ha il merito di essere un
noir militante.

Ce
ne vorrebbero altri.

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