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http://www.youtube.com/watch?v=qbF0yEDZqHY

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[Pechino] Gioco d’azzardo

ma
voi che siete uomini
sotto il vento e le vele
non regalate
terre promesse
a chi non le mantiene

Questo
articolo di China Files
, lo dedico a tutte le mie amiche…:-) anche
se in ritardo di un giorno.

Per
il resto, cosa volete che dica, è tutto tempo che passa.

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[Pechino] Oscilla misterioso il lampadario

piuttosto
tutto questo può servire


per
dire un’altra cosa,


ma
chi si ricorda più?

In
questi ultimi giorni pechinesi prima del mio ritorno ormai prossimo
nel paese che sta scomparendo, il mio amico Liu è venuto a
trovarmi a Pechino, complici alcuni appuntamenti di lavoro che si è
ritrovato a organizzarsi nella capitale. L’ho trovato tutto
indaffarato e iperattivo come al solito, anche se è strano
ritrovarsi senza condividere le ore di lavoro che si facevano a
Shanghai. Entrambi presi da impegni e ci si incrocia in casa, un po’
a caso, un po’ tentando di arrabattarsi tra appuntamenti e sani e santi cazzi propri.
Liu al solito sembra un genovese mugugnone, con le solite frasi
sprezzanti o ironiche su Pechino, memorabile quella sul báicài,
il cavolo cinese (“i pechinesi li portano a spasso come se fossero
dei bambini”), mentre a farlo ridere a sto giro sono stato io
raccontandogli una barzelletta cinese su Mao Ze Dong e Deng Xiao
Ping, raccontata qualche sera fa da un’amica italiana. Era piegato
dal ridere.

Poi
ieri sera ci siamo fatti alcune chiacchiere e il mio amico Liu,
improvvisamente, mi ha preoccupato un po’.

Nel
senso che lui è un tipo decisamente scanzonato, arruffone e
spaccone, casinista e innocente, costantemente teso tra il fottersene
e il tentare la scalata sociale. La mia amicizia non deve avergli
chiarito le idee (tremebonda la sua domanda: “ma perché non
ti interessa fare carriera?”), né deve averlo fatto, o forse si, la mia videoteca cinese se
è vero che ieri rientrando in casa l’ho beccato a guardarsi
tutto sorridente il film dal titolo “how to rob a bank”.

Infine
ieri sera, in seguito ad una giornata in cui mi ha raccontato la rava
e la fava di tutti i boss che stava andando ad incontrare, si è
sfogato parlandomi della sua percezione della Cina.

E
non so se è tanto diversa dalla mia, in qualunque parte del
mondo mi possa trovare, quando Liu mi ha detto che il problema, non è
farsi il culo, sbattersi, perdere e ritrovare la faccia, quanto non
potere neanche riuscire a immaginare qualcosa di diverso dalla merda
che vediamo tutti i giorni.

E
ha concluso, stiracchiandosi sul divano: same shit, different day.
Goodnight.

Goodnight.

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[Pechino] Gǎnjué

When
I find out all the reasons
Maybe I’ll find another way
Find
another day
With all the changing seasons of my life
Maybe I’ll
get it right next time
An now that you’ve been broken down
Got
your head out of the clouds
You’re back down on the ground
And
you don’t talk so loud
An you don’t walk so proud
Any more, and
what for

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[Pechino] Codici di ingresso

Avevano
parlato a lungo di passione e spiritualità.
E avevano
toccato il fondo della loro provvisorietà.
Lei disse sta
arrivando il giorno,
chiudi la finestra o il mattino ci
scoprirà.
E lui sentì crollare il mondo,
sentì
che il tempo gli remava contro,
schiacciò la testa sul
cuscino,
per non sentire il rumore di fondo della città.

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[Pechino] Yesterday

Yesterday,
there was so many things
I was never told
Now that I’m startin’
to learn
I feel I’m growing old

‘Cause yesterday’s got
nothin’ for me
Old pictures that I’ll always see
Time just
fades the pages
In my book of memories
Prayers in my pocket
And
no hand in destiny
I’ll keep on movin’ along
With no time to
plant my feet

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[Shanghai] Pioggia che ci bagna

Noi aspettiamo che spiova, signor padrone, aspettiamo che spiova.

Vabbè,
stasera torno a Pechino, dopo tre giorni a Shanghai. Ho ritrovato amic*
e una città che, da quando non ci abito più, mi
affascina ogni volta. Un po’ come succede per Genova. O per certe
cose: sono belle quando non le hai più.

Il
mio amico Liu è diventato assiduo del Sofa Bar, conosce tutt* e di sera ci si ritrova, con il locale chiuso, come una specie di famiglia allargata. A riflettere le corse, la pioggia, ad aspettare che spiova. E con Tina e
Shelly ci siamo fatti tante belle chiacchiere. Sono contento, per
tutt*. Shelly al solito, mi fa morire. Le ho anche detto che il Genoa
è quinto in classifica, anche se strameriteremmo il quarto posto che giochiamo meglio di tutti, e che insomma, cazzo!,
quest’anno…cazzo! In cambio di queste informazioni lei si è impietosita del mio raffreddore, aumentando il mio bagaglio di medicine asiatiche (ho fatto il carico di medicinali cinesi a Pechino) con delle pasticche giapponesi. Mi ha obbligato. (( Casualità: due "acquari(e)" a rimpinzarmi di medicine….))

Il
mio amico Liu ha avuto a che fare, per lavoro, con alcuni italiani.
Così l’altra sera, mentre si parlava di cazzate, a un certo
punto mi dice: ma in Italia cosa sta succedendo? E io: lascia
perdere, sennò io tiro fuori il Tibet
. E lui: ma sti
due italiani mi hanno detto che ci sono i rumeni che stuprano le
donne italiane
. Un’invasione, hanno detto.

Gli
ho pagato 4 gin tonic con la promessa che mostrerà agli
italiani i miei insegnamenti di lingua italiana. Un cinese che
bestemmia in italiano deve essere una bella emozione, per quei due
italiani teste di cazzo.

Poi
Shanghai mi ha riconquistato: ho passato alcune ore a camminare,
perso tra le vie, tra le case in ricostruzione per l’expo, con le assi di bambu tirate verso l’alto, a coprire le case vecchie, distratte, annoiate e le strade malinconiche, aperte da voragini da cui spuntano elmetti gialli. Arredo urbano, umano. Pioveva, pioveva e pioveva. Shanghai è metallica e industriale, umida e in posa, nel suo desing così sfrontato e nella sua estenuante corsa verso gli specchi.

Portami
a bere dalle pozzanghere.

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[Pechino] Scuola e dintorni

non
sai che ci vuole scienza


ci
vuole costanza


ad
invecchiare senza maturità

Ho
pensato spesso qui a Pechino, che mi sono un po’ rotto il cazzo delle
lamentele, dei continui scuotere la testa. E ritengo che il motivo
principale per cui tanti si lamentano e niente cambia è che in
pochi, poche volte, ci metto dentro anche me, a scanso di equivoci, prendono parte, fanno delle scelte, rinunciando
anche alla bellezza di stare insieme solo per criticare (come diceva
Battiato, mi pare)
.

Prendere
parte significa scegliere. E provare non solo ad analizzare
(e criticare), ma anche cambiare. E penso sia una questione di
attitudine. Ne abbiamo parlato anche in Italia tante volte. Quando
non c’è rimasto che provare a prendere parte, spesso da soli o
in pochi. E allora in questi giorni mi sono fatto svariati giri sul
blog di Nero, il mio socio. E ho seguito la sua riflessione sulla scuola in cui insegna, con conseguenti polemiche. E’ venuto fuori un casino:
professori e perfino il preside che postano sul blog, un po’ di
frecciate e addirittura la richiesta di discuterne in un consiglio
straordinario
o qualcosa del genere. Ora, Nero si era limitato a
fare alcune argute osservazioni sulla scuola non risparmiando
randellate a nessuno (ci piace così del resto), ma proponendo
temi di discussione che mi sembrano fondamentali per parlare di
scuola, educazione, futuro, civiltà.

Soprattutto
però Nero ha dimostrato, secondo me, cosa significhi il senso
di dire: prendere parte. Gli ho anche mandato una mail,
mi sono sentito vicino a lui – anzi avrei voluto essere lì e
dirglielo a voce – e a quell’attitudine, un po’ da agitatore sociale,
rosa tra i denti, da menestrello di epiche e vicende umane, da chi alla fine non sta
zitto, per niente. E che alle parole prova a fare seguire dei fatti,
nelle svariate maniere in cui si possono fare, comunque mettendoci le
mani sopra, non accontentandosi. E lottare, discutere, assumersene le
responsabilità e soprattutto, metterci la faccia (un tempo si diceva mettere il culo all’asta). Fottendosene anche un po’ delle conseguenze,
anche negative, che tutto ciò potrebbe avere, specie se pensate a una scuola finita su un blog. Robe e isterismi da reality show…ma anche spiragli e non da poco. 

Questa
è la serie, de I Problemi della Scuola: prima parte,
seconda parte, terza parte e quarta parte. (Ve
lo consiglio, meglio di Report!)

Avrai
sempre il momento giusto per sistemarla
le vie del mondo ti sono
aperte tanto hai le spalle sempre coperte
ed avrai sempre una
scusa buona per rifiutarla

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[Pechino] Le mani su Seoul

Nel
post entusiastico sulla connection giapponese avevo fatto cenno all’incendio e la morte di 5 attivisti e un poliziotto, qualche tempo
fa a Seul, in Corea del Sud.

Sono contento che oggi Il
Manifesto
abbia pubblicato un articolo al riguardo, scritto da
una persona che sta là e
non su una sedia comoda comoda in ufficio
.

Anche
se un po’ in ritardo – ma ci sta anche visto il casino in Palestina e
altri eventi dal mondo che hanno occupato le poche pagine a
disposizione – sono contento perché credo sia un segnale di
attenzione e apertura a certi temi, da parte della redazione che si occupa delle pagine internazionali.

Il
resto del quotidiano, ad eccezione secondo me della pagine di cultura
e di sport, non mi piace quasi mai: specie le pagine di politica e quelle sindacali: le trovo vecchie, da vecchi piciastri,
troppo succube della cgil e del variegato mondo istituzionale di sinistra,
spesso, e incapace di cogliere la realtà
e intento solo a rincorrere voci ufficiali o le pernacchie dei leader
come un Repubblica o un Corriere qualunque che in ogni caso si trovano già o line il giorno prima.

Le pagine della sezione
Internazionale
invece ultimamente
mi sembrano tornate vicine ai loro
momenti migliori.

Ecco l’articolo:

Le
mani su Seoul

Junko
Terao
Seoul, distretto di Yongsan, poco dopo l’alba di un mese fa.
Una quarantina di persone occupa il tetto di un edificio dismesso per
opporsi a un piano di riqualificazione urbana che toglierebbe loro
casa e attività commerciali senza adeguate compensazioni. Con
sé i cittadini in protesta hanno molotov e materiale
infiammabile. La polizia lo sa, ma interviene lo stesso calando sul
tetto, tramite una gru, i suoi uomini in tenuta antisommossa dentro
un container. Lo scontro è immediato, volano manganellate, gli
squatter si difendono con bombolette di pittura spray, qualcuno
appicca il fuoco, le fiamme divampano e scoppia l’inferno. Sei i
morti, cinque squatter e un poliziotto. E’ il bilancio più
tragico che si ricordi negli ultimi anni a Seoul in uno scontro tra
polizia e manifestanti. Nemmeno nell’ondata di manifestazioni di
piazza del luglio scorso, quando i sudcoreani scesero per le strade
in centinaia di migliaia contro il presidente Lee Myung-bak e la sua
decisione di riprendere le importazioni di carne americana, c’era
scappato il morto.
L’episodio ha riportato a galla le critiche
alla polizia per i suoi metodi brutali e all’atteggiamento«da
imperatore», come dicono i suoi detrattori, del presidente Lee
nella gestione del potere. Un mese dopo «la tragedia di
Yongsan», come ormai tutti chiamano il drammatico episodio del
20 gennaio scorso, le polemiche continuano. Le accuse contro le forze
dell’ordine sono volate subito, sia da parte dei pariti
dell’opposizione che da parte delle organizzazioni di cittadini, che
fin dal giorno dopo gli scontri hanno cominciato a organizzare marce
e fiaccolate per chiedere chiarezza e giustizia, a cominciare dalla
testa del capo della polizia di Seoul. Ad autorizzare l’azione di
«sgombero» degli squatter che occupavano l’edificio è
stato infatti Kim Seok-ki, capo della polizia della capitale
sudcoreana ma anche fresco di nomina a capo della polizia nazionale.

Il presidente Lee, appena due giorni prima, aveva presentato con
orgoglio il nuovo ufficiale, chiamato a sostituire quello precedente
cacciato proprio perché sotto accusa per i metodi brutali
usati dai suoi uomini contro i manifestanti nel luglio scorso. Una
storia che si ripete, perfettamente in linea con la politica della
«tolleranza zero» sbandierata da Lee.
Ci sono volute
tre settimane prima che Kim, strenuamente difeso dal governo
nonostante fosse ormai al centro di una vera e propria bufera,
lasciasse il suo posto e rinunciasse anche al nuovo incarico. Alla
fine il presidente Lee ha sacrificato il capro espiatorio, sperando
così di sopire la rabbia dell’opinione pubblica.
«Me
ne vado assumendomi la responsabilità morale di ciò che
è accaduto», ha fatto sapere Kim annunciando le sue
dimissioni. Un gesto «per evitare di alimentare ulteriormente
le polemiche a danno del governo, alle prese con la crisi economica».
Ma, ha aggiunto, non ha nulla da recriminare contro i suoi uomini,
che hanno agito correttamente.
Era il massimo che potevano
sperare i familiari delle vittime e le migliaia di persone che con
loro scendono quasi ogni giorno in piazza in segno di protesta.
Dovranno accontentarsi, dato che i risultati dell’indagine condotta
nel frattempo dalla procura, pur giudicando «eccessivi» i
metodi della polizia, hanno sollevato in toto le forze dell’ordine da
qualsiasi responsabilità legale, e incriminato una decina di
cittadini sopravvissuti al rogo come colpevoli per aver provocato
l’incendio. Un verdetto che ha lasciato scioccata e incredula
l’opinione pubblica, non solo perché l’intervento della
polizia aveva delle premesse dubbie – come il fatto, per esempio, che
gli uomini in tenuta antisommossa sono entrati in azione appena 24
ore dopo l’inizio del sit-in, senza lasciare alcuno spazio al dialogo
e ai tentativi di concertazione con gli squatter-, ma anche perché
sembra che gli investigatori abbiano trascurato una serie di elementi
importanti. A cominciare dalla presenza di guardie di sicurezza
private, ingaggiate dalla polizia per supportare l’operazione, le
quali, secondo alcuni testimoni, avrebbero appiccato il fuoco al
terzo piano dell’edificio per riempire di fumo il tetto.
Le forze
dell’ordine, che inizialmente avevano negato di aver armato
contractors, smascherate dalle intercettazioni telefoniche hanno
dovuto infine ammettere che sì, le guardie private c’erano ed
erano state chiamate appositamente. Gli investigatori, invece, pur
avendo condannato alcune di queste guardie private per attività
illegali, hanno negato che vi fosse un legame tra loro e la polizia.
La loro presenza nelle aree soggette a piani di riqualificazione come
Yongsan, del resto, non è nuova. E’ noto che le compagnie di
demolizione e quelle dei costruttori assoldano «scagnozzi»
privati per minacciare gli abitanti e i negozianti che non vogliono
andarsene.
Per la maggior parte di loro significa lasciare le
proprie attività commerciali a fronte di risarcimenti poco più
che simbolici, pari a tre mesi di guadagno, come vuole la
regolamentazione nazionale in proposito. E’ il caso, per esempio, dei
quaranta asserragliati in cima all’edificio. Molti di loro sono
negozianti della zona che, una volta costretti a chiudere bottega e a
trasferirsi, rischiano di rimanere senza lavoro. Parecchie sono le
denunce di intimidazioni, a volte anche violente, a carico dei
contractors.
Ma i dubbi sulla validità delle indagini sono
sorti ancor prima che queste iniziassero, quando Lee ha rilasciato
dichiarazioni che già preventivamente assolvevano l’operato
della polizia, quasi a suggerire agli investigatori una direzione da
seguire. I partiti dell’opposizione – che per la prima volta dopo 22
anni hanno creato un fronte anti-governativo insieme alle
associazioni di cittadini, era dall’87 che non accadeva – chiedono
che sia aperta un’inchiesta indipendente.
Il governo sperava che
il sacrificio di Kim sarebbe stato sufficiente a far considerare
l’episodio archiviato, ma oggi si trova invece a fare i conti con la
goffaggine dei suoi funzionari. Nei giorni scorsi un parlamentare del
partito democratico ha reso pubblico un messaggio di posta
elettronica spedito da un membro dell’ufficio delle relazioni
pubbliche del governo all’Agenzia nazionale di polizia. Nel messaggio
c’era un consiglio, o meglio, una direttiva precisa: utilizzare il
caso di un presunto serial killer arrestato nella provincia di
Gyeonggi per deviare l’attenzione dell’opinione pubblica e dei mezzi
d’informazione dalla bufera che si è scatenata dopo i fatti di
Yongsan. Detto, fatto: la polizia, in barba ai diritti umani del
presunto omicida, che avrebbe ucciso una donna e sua figlia, ne ha
mostrato il volto ai fotografi, dando in pasto il mostro alla stampa.
Naturalmente il governo ha subito rigettato le accuse «infamanti»,
salvo poi dover ammettere che la direttiva è effettivamente
partita dall’ufficio governativo, ma «si è trattato di
un’iniziativa privata di un funzionario».
Un tentativo
disperato, quello del presidente Lee e della sua amministrazione, di
risollevare la reputazione e il consenso, ormai in discesa
inarrestabile mentre la crisi avanza e l’occupazione è in
caduta libera, a colpi di diecimila posti di lavoro in meno al mese.

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